Tuesday, January 27, 2009

Piggio pistole e ci sparo

Tutte le volte che mi dirigevo verso una videoteca per noleggiare qualcosa di interessante da vedere al caldo, sotto una coperta e con qualcosa da accarezzare (pelo di cane, di umano, flanella di un cuscino aggiuntivo, etc…) oppure, per compensazione, qualcosa da mangiare, mi davo un obiettivo: “prendo Gomorra, non sono riuscita ad andare al cinema quando era in programmazione”.

Per mesi la delusione di trovarlo già a noleggio. Numerosi film noleggiati in sostituzione, alcuni rivelatisi film “da vedere”, come Cous Cous, Zodiac, altri una perdita di energie visive.

Poi finalmente, Gomorra, in una domenica pomeriggio umida di gennaio, sotto le coperte, accarezzando pelo umano.

Curiosa, interessata a vedere il film dell’anno 2008, quello di cui tutti parlano. Quello per cui l’autore del libro omonimo dal quale è stata tratta la sceneggiatura è dovuto fuggire dall’Italia per non vivere sotto scorta. O forse sotto scorta gli conviene vivere anche all’estero.

Schifo. Non che facesse schifo il film in quanto brutto da vedere. Schifo ciò che faceva vedere. Incredula e schifata da una realtà animale resa tale da esseri umani. Ragazzini che giocano ad una guerra con armi vere, poiché la stessa guerra a cui giocano è vera. Illecito di ogni tipo: smaltimento di rifiuti tossici prodotti nel nord Italia e non solo, traffico di armi, spaccio di sostanze stupefacenti, omicidi come se fossero banali intoppi lungo il percorso dello “sporco lavoro” di ogni giorno.

Mi è piaciuto il modo di presentare e raccontare una realtà difficile, quasi impossibile da credere vera da chi vive civilmente.

Finalmente l’ho visto!

Sono a conoscenza nel dettaglio di ciò che ho sempre sentito dire. E che farà molta fatica a scomparire.

Stile anni '80

Che cosa è un manichino vivente? Non è un essere umano che di mestiere sta fermo ed indossa ciclicamente capi diversi in una vetrina. Lavoro interessante se non si vogliono responsabilità, anche se far provare interesse ai fruitori delle vetrine è un lavoro di grande responsabilità.

Il manichino vivente è un manichino in plastica con braccia, gambe, busto staccabili e ricomponibili. È ancora “più vivo” se dotato di testa. Ma i manichini con la testa ed i capelli troppo visibilmente sintetici mi spaventano. Mi fanno ricadere in un’atmosfera fallace alla Blade Runner, rinnegando il capolavoro di Ridley Scott a semplice sceneggiata tra manichini viventi.

Nonostante sia nata ad inizio anni ’80, mi ricordo tutto di quegli anni: musica, moda, programmi televisivi, cartoni animati in programmazione di maggiore successo.

Ancora oggi la mia cultura in musica anni ’80 è degna di orgoglio. Così piccola, ma già intenta ad ascoltare la radio che mia madre mi aizzava contro pur di farmi passare il tempo mentre lei sbrigava le faccende di casa. Ballavo, sul divano, seduta quando più piccola e difficilmente stabile, in piedi quando i “gattoni” erano soltanto un ricordo. Ricordo ancora con precisione la mia eccitazione nell’ascoltare alcune canzoni che divennero e sono ancora oggi “hits da pelle d’oca”: Vamos a la plaia dei Righeira, The final countdown degli Europe, Do you really (wants to hurt me) cantata da Boy George…

Il mondo della discoteca aveva influenzato la moda di quegli anni. Fan della sfera argentata dalle mille sfaccettature che si vedevano nelle scene dei film girati in quegli (non le ho mai viste dal vivo poiché nell’infanzia non ho avuto mai il permesso dai miei genitori di andare a spassarmela in discoteca). Ne vorrei una.

I fuseaux, i legging, le maglie over, i bluson dalle forme squadrate e dalle spalle enormi, le maniche a pipistrello, le vite strizzate da cinture protagoniste.

Fantastico. Il programma intendo. Era capace di mettere me al centro del divano con a fianco i miei genitori davanti alla tv. I balletti di Alessandra Martinez e Lorella Cuccarini, mio padre costretto a farmi rifare le stesse piroette in aria, passaggi di alta difficoltà… Bim Bum Bam, One e Paolo Bonolis, Raffaella Carrà…

Guardavo “pochi” cartoni animati, ma molto “buoni”: Jam (il mio nome è Jam, na nanana, sono una cantanta, na nanana, bella e stravagante…), Denver, Magica Emy, L’uomo tigre…

Formidabile memoria o, forse, anni meravigliosi in cui la memoria non era intaccata da, spesso inutili, preoccupazioni e cupi pensieri, detta “ansia del futuro”.

Monday, January 26, 2009

Going out in the early morning….

Sarà la voglia di lavorare che mi assale fin dal mattino da qualche mese a questa parte (basta poco in fondo per sentirmi stimolata, almeno sul lavoro….), ma l’apertura della porta di casa di primo mattino è diventato un rito quasi tanto atteso.

Non mi era mai capitato di inebriarmi del primo contatto quotidiano con l’esterno. Abitare in un luogo che amo aiuta, ma aiuta ancor di più non avere lo shock di andarsene di casa e sapere di non tornarci fino ad ora di cena.

Reagisco positivamente a qualsiasi condizione atmosferica, stranamente… ma le giornate di sole, quelle limpide giornate di pieno sole che vedi nascere fin dal mattino, mi lasciano un bagliore positivo per tutto il giorno.

Aria fresca. Silenzio. Accenno di luce. Io mi vedo, ogni mattina mentre mi incammino al cancello di casa, come un piccolo scoiattolo peloso (ma di pelo corto) che ogni mattina deve scalare il suo albero per raccogliere le pigne che gli spettano.

Friday, January 23, 2009

Sex & the small city

Michelone continua a chiedersi come faccia a rimanere fuori, cene, aperitivi, anche dopo una giornata di lavoro.
Michelone continua a mandarmi sms durante la serata: “tata, vai a casa, non fare tardi. Non eri stanca?”
Michelone sa, ma fa finta di non sapere, che non posso rinunciare alle serate “chiacchiere fra donne Amiche”. Soprattutto se queste Amiche sono molto care, se è sempre altissimo il tasso di gradimento ai nostri scambi di opinioni, se riusciamo a vederci non troppo spesso.

Carrie Allefer, Fefè e Bobby, in un giovedì sera nebbioso e freddo di fine gennaio, in un sushi bar del centro di Reggio Emilia, small city.

Fefè al ritorno da 10 giorni in Kenya, con safari di più giorni sulla pelle e centinaia di foto da mostrarci.
Bobby con alle spalle una giornata lavorativa agghiacciante e la prospettiva che le prossime saranno ancora peggio.

Un breve saluto di pochi minuti di Samantha Filo, che ci ha raggiunto dopo una sessione di dentista, molto dolorosa. Ma nonostante tutto la forza di parlare di sesso e uomini con un dente appena ricostruito.
Esattamente 4 donne sedute ad un tavolo che parlano. Il mio stereotipo di relazione fra donne che si amano da amiche.

Ho fatto tardi, colpa della miriade di foto del Kenya che la Fefè ci interpretava. Non contando i video fatti durante il safari, bellissimi ma un tantino mossi.
Mi è venuta voglia di Africa. Non credo sia un caso che tutti quelli che tornato da luoghi dell’Africa pura, vera, autentica, dicano che emozioni provate come quelle in spazi immensi, aperti, in cui l’orizzonte è visibile e percepibile ovunque, siano percepibili soltanto qui. Anzi là.

Ho visto filmati di leonesse che camminavano tranquille, elefanti, giraffe, bufali, coccodrilli, avvoltoi. Ed ho visto un mare selvaggio. Ho visto foto della natura, della Terra come è stata creata. Foto di bimbi di colore vestiti con altrettanti stupendi colori. Occhi molto intensi, puri. Inevitabilmente sinceri.
Ho visto, anche, la Fefè con una gran abbronzatura.

Ed abbiamo capito che nel 2010 le nostre chiacchiere e confidenze le faremo durante un bel viaggio. Insieme, da Donne Avventura (ho già il cappello di pelle western preso al Gran Canyon, USA!!!).

Monday, January 19, 2009

La barriera del suono

Il titolo di questo post è frutto di un colpo di genio avuto durante la guida al ritorno dalla pausa pranzo. Mentre con mani salde sul volante tentavo di abbattere la barriera del suono a bordo della mia utilitaria da “donna gioiello”.

Mentre guidavo con piede pesante sull’accelleratore per arrivare ad una fascia oraria idonea per trovare parcheggio davanti all’azienda: 13.45 – 14.48, tre minuti fondamentali.
Ho incontrato in pausa pranzo una cara amica dalla parte opposta della città, “corse” di donne che lavorano che non vogliono perdere il piacere di abbracciarsi e scambiare due chiacchiere.

Ingollare cibo spettegolando a bocca piena è proprio brutto da vedere, ma tanto bello da fare. È l’unica occasione in cui ci si può lasciare andare e fare a meno di essere composte: dover mangiare e parlare di cose che si vogliono assolutamente far sapere all’interlocutore.
E con le mani strette al volante pensavo a quante cose noi donne facciamo anche solo nell’arco di una nostra giornata. Ed a quanto si facciano velocemente, abbattendo la barriera del suono, pur di poterle fare.

Il mio attuale risveglio alle 6.45 è l’inizio di un “percorso salute” di media-alta difficoltà. Il mio look del giorno è scelto la sera prima, se non fisicamente sulla poltrona almeno nella mia mente: capi, scarpe ed accessori da abbinare
Al momento del risveglio, il tempo impiegato a mettere le pantofole ed arrivare in bagno coi vestiti in mano deve essere inferiore al minuto. Accendere la stufetta, fare la pipì e detergersi il viso precedono il buongiorno effettivo.

Apro la porta del salotto e… “buongiorno figli miei”, saluto Shary e Lupobilly ancora assonnati con un “batti 5”: sdraiati sulla schiena mi allungano la zampa allargandola per darmi il cinque di primo mattino. I cani mi inseguono in cucina e si riappisolano mentre accendo la tv su rete 4. Da inizio anno c’è un telefilm anni ’70 che narra le vicende di un medico-patologo legale e sua moglie psicologa. Mi “intrippa”, mi fa provare interesse e stimolo mentale fin dal primo mattino.

Preparo le crepes alla cannella e marmellata ai frutti di bosco, il latte macchiato tiepido.
Mentre le crepes cuociono, torno in bagno a vestirmi di tutto punto.
Mangio guardando il telefilm.
Torno in bagno per lavare i denti ed il fondamentale make-up. Purtroppo o per fortuna, lavorare nel settore moda non permette di essere sul posto di lavoro “sciatta”. Mi sento spesso “tacchettina”, vi ricordate le subordinate di Miranda Preston ne Il Diavolo Veste Prada? Solo che il mio veste Max Mara.

Pronta per sgommare, abbattere la barriera del suono in autostrada, arrivare in sede sperando di arrivare nei 3 minuti chiave per trovare parcheggio vicino all’entrata: 8.28 – 8.31.
Percorrere velocemente il corridoio che porta al tuo ufficio, sperare che la tua capa non sia arrivata prima di te per non rischiare occhiate o frecciate che lasciano poco all’immaginazione.

Si lavora e lo si fa in un open space di 20 persone: “di cazzate nell’arco della giornata ne sentirai parecchie” mi aveva detto una mia collega appena arrivata qui. Si fanno pause caffè quando possibile, quando non si è in riunione o sotto torchio. La pausa caffè ha un meccanismo strano. Esistono le “amiche da pausa caffè”, i gruppetti fedeli, coi loro orari e le loro abitudini. Io faccio parte di un gruppetto “stimmy” (non poteva essere diversamente, ogni gruppetto deve avere argomenti in comune su cui parlare), formato da giovani donne (26, 27, 29, 30, 32, ) che hanno deciso, volontariamente o seguendo simpatie dettate dal subconscio, di condividere pensieri durante 10 minuti a metà mattina e durante 10 minuti a metà pomeriggio.

Stamattina abbiamo affrontato il tema: “ma i capi che trovate ammassati in fondo al guardaroba, dismessi e fuori moda, vanno buttati o rivenduti?”, la Romy ha sentenziato “no ragazze, si fa del bene alle persone, bisogna fare un sacco e regalarli, soprattutto se sono di marca, fanno felici altre ragazze…”. Oggi pomeriggio abbiamo affrontato il tema: “non riesco ad uscire di casa ed a non comprarmi niente, ma ora mi devo dare una regolata, sono piena di vestiti che non metto”.
Probabilmente la chiacchierata di stamattina aveva permesso di conteggiare mentalmente i capi dismessi in fondo all’armadio ed il perché di tanto spreco. Ogni tanto i discorsi vani e superficiali aiutano, in tante valutazione pian piano più intelligenti.
Le pause pranzo sola o in compagnia non forzata (i colleghi non si scelgono e ogni tanto è bene farsi vedere in mensa e sfruttare le convenzioni aziendali) sono la boccata d’ossigeno di metà giornata.

“E’ le sei” non sempre ci appartiene: l’unica certezza è sapere quando si arriva, non quando si esce.
I desideri a fine giornata, una volta “libera”, sono sempre tanti: mettermi in moto, fisicamente, correre, ballare; rilassarmi durante un aperitivo e cena con persone a me care; guardare dopo cena Un Posto al Sole su raitre piangendo o sghignazzando; leggere o scrivere… troppo poca la mia forza di volontà e troppa la pigrizia da stanchezza. Devo migliorare. Devo almeno potermi mettere lo smalto davanti alla tv prima di crollare.

Non posso avere solo due certezze in una giornata-tipo: arrivare al lavoro in orario ed addormentarmi immediatamente dopo aver toccato il letto.

Wednesday, January 14, 2009

L’importanza di chiamarsi Fedele (e non Ernesto)


In epoca di crisi sussurataci in ogni dove (impossibile non ascoltare anche non volendo), la parola chiave è “fedeltà”.

Fedeltà in ogni dove, con chiunque: fedele al proprio partner, fedele alle proprie idee e valori, fedele alle nostre abitudini, fedele ai nostri gusti.

Fedeli e vincenti al risparmio ed al buon servizio.

Fedeltà al proprio uomo, che sicuro sempre più del vostro amore (e di sé) accetterà di pagarvi qualche cena in più (fino pian piano a farlo diventare una piacevole routine, “paga lui”) e avrà sempre più voglia di omaggiare la vostra dolcezza ed esclusività con regali (si spera sempre più graditi).


Fedeltà alle proprie idee e valori, guadagnerete tempo (che quasi sempre è “denaro”) nel non pensare sempre alle stesse “cose”, poiché, si spera, si è già raggiunta una buona qualità, apprezzabile, di valore umano. Inutile rimurginare sulle buone qualità ed il “ben fatto”. Doveroso farlo sul “cattivo tempo” provocato a se stessi e ad altri.

Fedeltà alle proprie abitudini, che siano di acquisto e di consumo. Diventare clienti assidui di negozi, ristoranti, centri estetici è fondamentale, ora, per risparmiare: le responsabili di vendita ci conosceranno pian piano, miglioreranno il loro modo di servirci, in meno tempo poiché più consapevoli di ciò che vogliamo. “Tessere fedeltà” saranno il loro modo di tenerci stretti, ma siamo già motivate a rimanere strette: gli sconti si fanno soltanto a facce amiche e noi abbiamo tutte le intenzioni di essere “facce amiche”.

Fedeltà ai nostri gusti, così non dovremo comprare altri oggetti per soddisfare altri bisogni. Mi piace giocare a tennis? Continuerò a giocare a tennis, risparmierò su un ulteriore paio di scarpe da ginnastica da running facendomi bastare le scarpe da tennis. Mi piace il pane da toast integrale del Mulino Bianco? Raccoglierò i punti per avere un tostapane.

Tuesday, January 6, 2009

Comitato “anti-befane”


Oggi, quasi ogni uomo vi dirà “cara, auguri, oggi è la tua festa” non sapendo che il realtà siete voi a far sempre loro la festa.

Ci sono moltissimi modi per fare la festa ad un uomo, ma l’unico veramente efficace e rispettoso è il rendersi sempre “stra-figa”.

Un uomo sta ad una “stra-figa” come un cane ad un osso di prosciutto con ancora un po’ di carne attaccata.E questo immagino sia l’effetto che ogni donna vorrebbe indurre sempre all’uomo di suo interesse.

Oggi voglio fondare il COMITATO ANTI-BEFANE, formato non da stra-fighe ma da fighe. Siamo in grado di evolverci in stra-fighe in occasione di “tiraggio”, ma normalmente dovremmo veleggiare in mari poco mossi in modo da non avere capelli crespi, spettinati, trucco sbavato, ascelle mal odoranti, piedi che non odorano di fiorellini. Insomma, normalmente fighe, stra-fighe in caso di missioni esplorative e volitive.

Non parlo di starlette o di Simona Ventura.

Parlo di tutte noi, donne che fanno del poco tempo libero l’occasione per correre dall’estetista o dal parrucchiere.

Parlo di tute noi, che non ci crediamo così belle al mattino appena sveglie o senza trucco, con quel trippino dovuto alla barretta di cioccolato non nascosta tanto bene ai nostri occhi.

Parlo di tutte noi, che ora smetteremo di mangiare “porcate”, la festa è realmente finita, e cominceremo ad impegnarci nel non lasciarci andare. Altrimenti gli auguri il 6 gennaio saranno più che meritati e dovuti.

Le dritte

Immagino che siate numerosi, ora, a chiedervi “che cosa andrà quest’anno?” ed ancora “che cosa sarà trendy quest’estate?” (in realtà so che non ve ne importa molto, mah….)

Di tutto, di più.
Da quanto il vintage è diventato il passeport per ogni occasione e per ogni luogo, si può osare e mixare ogni cosa, in ogni stagione. Sarete contenti nel sapere che potrete rispolverare e togliere l’odore di naftalina dalle vostre giacche maxispalle e pantaloni a vita alta ed “acqua-in-casa” anni ’80.

Se avevate nostalgia di Miami Vice e di un brillante Don Jhonson è il momento giusto per immedesimarvi ancora una volta. Allo stesso tempo tornano in voga gli abitini anni ’20 con vezzose frange retrò. Non so se avrò il coraggio di indossarne uno questa stagione, mi conviene “passare”ancora una volta. Se volete fare un buon investimento (altro che mercato immobiliare ed azionario!) comprate un buon trench.

Reinventato sta durando da quasi 10 stagioni e sono convinta diverrà il nuovo cappotto maxmariano per le mezze stagioni. Non azzardate un centino speso da Zara, H&M e qualsivoglia bancarella sotto mentite spoglie di negozio. Sarebbe un centino buttato, bruciato.

Sul pezzo forte di stagione non si risparmia. Sceglietelo in tinta classica, pastello, preferibilmente il classico beige coloniale, di gabardine, tessuto impermeabile ma non artificiale, puro cotone con effetto elegante e non pacchiano. Collane giganti, maxi bracciali e gioielli. The necklace show. L’abito non farà il monaco, ma la collana si. Il pezzo unico, il vestito, la tuta dai tessuti leggeri perché sarà d’obbligo vestirsi a strati e di filati naturali, pettinati.

Ed infine un appello: l’era “tamanza”, quella dai marchi sempre esposti sui capi e ben in evidenza, visibili anche ai miopi, è finita o, almeno, è rimasta per pochi ed esclusivi “finti abbienti, veri pezzenti”.

Non comprate per mostrare i marchi, non comprate capi con brand in evidenza. Ma comprate per METTERVI in evidenza, per quanto siete STIMMY e “in forma”.

Sunday, January 4, 2009

Il sogno della merce

“Bruges. La coscienza dell’assassino” è uno di quei film un po’ d’autore, ma un autore non tanto lucido e serio, come piacciono a me. È la storia di chi come mestiere è un killer. Ambientato in una città belga di epoca fiamminga, Bruges appunto, ha anche un nano fra i personaggi-protagonisti. Questo lo rende ancora più geniale.

Come sempre vengo colpita da frasi, scene, parole che mi innescano altre personali considerazioni, su uno stesso argomento, oppure su tutt’altro.
Harry, capo banda dei killer di professione, si altera al telefono sbattendo quest’ultimo fino a romperlo al termine della conversazione telefonica. Era un po’ nervoso. La moglie accorre dicendogli “Harry, è soltanto un oggetto inanimato”. Lui le risponde “tu sei un oggetto inanimato”. Il primo pensiero che mi ha raggiunto è stato “come avrei ridotto un uomo se mi avesse risposto in quel modo”, ma subito dopo, non so come e perché, ho pensato agli oggetti ed al loro potenziale sulle persone animate.

Quanto siamo legati agli oggetti che possediamo, che abbiamo desiderato tanto e successivamente avuto? Ci sono oggetti che ci passano di mano per “bisogno”, per esempio un cavatappi, che viene utilizzato, riposto e degnato nemmeno di uno sguardo o di un apprezzamento per averci fatto raggiungere il nostro scopo. E ci sono oggetti che non hanno nessuna utilità, il mio nuovo personaggio di plastica del momento usato come sopramobile, il Rabbid, a cui diamo particolare attenzione emotiva.

E ci sono oggetti per cui siamo disposti a rinunciare a tanti altri oggetti pur di averli. E sono quasi sempre gli oggetti più inutili quelli per cui siamo disposti a tirare la cinghia sul cibo, bisogni primari, divertimento sociale, etc…
La fase successiva del mio pensiero è stata: quanta vita hanno gli oggetti? A quante persone appartengono nel corso della loro vita? Immagino che storie divertenti e pazzesche potrebbero raccontare gli oggetti in ogni casa se potessero parlare ed esprimere quello che vedono.

Ecco, il Natale influisce sul “passaggio di mano” degli oggetti. A Natale si verifica quel fenomeno, che tutti fanno finta di non conoscere ma tutti applicano pur continuando a non conoscerlo, che è il “riciclo dei regali del cazzo”. Di solito chi non ci conosce bene, chi non ha voglia di sforzarsi, chi non ha intenzione di spendere, chi è proprio “stronzo” ci rifila una cosa completamente inutile o fuori da ciò che potrebbe lontanamente appartenere ad una persona come noi. In questo caso, l’etichetta della guerra personale fra “stronzi” impone che a sua volta questa persona riceva la cosa più brutta che un’altra persona a sua volta ci ha regalato.

Il potere degli oggetti!!!

Thursday, January 1, 2009

I’ve lost my head

Il nono episodio della terza serie di Sex & The City è il più denso e bello di tutti gli episodi delle 6 serie messi insieme. Anzi, aggiungiamoci anche il film uscito nel 2008 come sequel. Quindi, è il “must” di tutto ciò che è stato girato sotto il nome di “sesso e la città”.

Easy come, easy go: è il titolo dell’episodio ma è anche ciò che penso della vita.
Come si arriva, così si parte. Ma il fatto di poterlo fare facilmente non è da sottovalutare, anzi, dovrebbe essere la norma. L’arrivo\partenza potrebbe essere riferito ad ogni cosa iniziata\conclusa, ad ogni persona amata\lasciata andare, ad ogni cosa posseduta\persa.

Il mio alter ego Carry viene inseguita dal suo tanto amato Big, che se l’era squagliata poco meno di un anno prima per sposarsi con un’altra donna.
All’interno di un ascensore Big tenta di baciare Carry che si divincola, incazzata visti i precedenti del Grande uomo. Il mio alter ego (non a caso) continua a ripetergli “vaffanculo”, fuck you, finchè lui le risponde I love you. Lei fuck me. Un qualcosa doveva essere “fottuto”.
Siiiii, fanno l’amore, si fumano una sigaretta dopo come in tutte le performance cinematografiche che contano.

Carry parla da sola, dentro di sé, in silenzio anche quando è con altri. Faccio la medesima cosa, quasi sempre. È come se dovessi descrivermi quello che sto vedendo o vivendo ulteriormente, con la mia voce, silenziosa, e non solo.

Lei si dice dentro di sé fumando la sigaretta del “dopo”, I’ve lost my head. Penso sia bellissimo dirsi che ci si è innamorati e rendersene conto.
Ora mi riguardo l’episodio un’altra volta…

I Negrita cantano “che rumore fa la felicità”


Come ogni inizio anno che si rispetti, anche stavolta serve avere un buon proposito, un obiettivo nuovo da raggiungere, un qualcosa che si vuole cambiare di noi o per noi nell’anno che verrà, una promessa fatta a noi stessi ma non solo, un desiderio, un sogno…

Io vorrei solo un po’ di soldi. Da spendere nei miei propositi, che però sono sempre gli stessi, non cambiano col variare dei nuovi anni. Nel mio vocabolario sfoglio ormai da anni gli stessi vocaboli, le stesse lettere, poiché ormai da anni le mie inclinazioni, passioni e desideri si sono formati, sedimentati, migliorati.

Sotto la lettera V trovo:
Viaggi, e per me viaggiare è anche camminare per 2 ore percorrendo 18 km vicino a casa, l’importante è vedere “fuori”; Vogue, fin da piccola ho avuto l’irrefrenabile curiosità di capire cosa fosse realmente la moda e perché fosse così diversa (ed incompresa) da tante altre forme d’arte.

Sotto la lettera A trovo:
Alessandra, mi piaccio a tal punto da pensare a me spesso, come ad una ragazza piacente; Amore, il susseguirsi dei nuovi anni mi ha fatto imparare ad amare, un uomo, dei cani, dei genitori, delle cose, dei pensieri, la vita; Amicizia, che rimanda all’Amore, è pur sempre amare.

Sotto la lettera C trovo:
Cioccolato, sarò sempre una “trippona” devota; Cazzo, la parola che dicevo più spesso prima di incontrare un educatore alimentare e letterario sotto forma di bell’uomo; Cani, una mia grande passione; Cucina, perché nel bene o nel male riesco ad inventare ricette con quei pochi e poveri ingredienti che ho sempre in casa. Provoco sconvolgimenti nella mia divertente vita quasi ogni anno, senza promettermeli ad inizio anno.

Quest’anno farò esattamente così. Non mi auguro nulla di sconvolgente, ci penso già da sola quando mi alzo al mattino al farmi venire idee ed esigenze nuove e folli.
Mi auguro solo serenità, non felicità, poiché penso che per essere felici bisogna essere sereni e non viceversa.

Un augurio di serenità a me, che mi sento di dover dare un rene sul lavoro quest’anno, che però spero mi venga pagato oro!
Un augurio di serenità a me, che adoro farmi stropicciare i piedi leggendo e che non ho più paura di dormire in due.

Un augurio di serenità a tutti Voi, miei carissimi Amici, che so già mi farete ridere di gusto anche quest’anno.