Thursday, November 27, 2008

Patricia van Lubeck

Salvador Dalì
Fernando Botero
Patricia van Lubeck
Anche gli insegnanti apportano qualcosa di determinante nella propria vita. Durante gli anni di liceo, la mia insegnante di "storia dell'arte" divenne un pò un punto di riferimento: il riferimento che l'arte mi piaceva, mi sarebbe sempre piaciuta. Trascorrevo i sabati pomeriggio davanti alla tv, ma quello era solo il sottofondo, l'accompagnamento. Di norma sbirciavo un film in bianco e nero con Alberto Sordi o quant'altro: l'importante che fosse un film in bianco e nero e non più giovane dei 30 anni. Disegnavo capitelli, riproducevo templi greci e romani: tutto con una precisione maniacale. Dopo alcuni anni, dal disegno pratico passavo allo studio personale di ciò che cominciava ad attrarmi: l'arte moderna e contemporanea. Prendevo in prestito volumi enormi dalla biblioteca comunale, li trasportavo a casa come un mulo da soma, mi appostavo sul divano e sfogliavo fino a tarda serata del sabato, quando non sarei uscita perchè tanto mio padre non mi avrebbe mai dato il permesso.
Fervida appassionata tutt'oggi di arte, ricevo suggerimenti da amici appassionati quanto me e non su cosa c'è di nuovo ed interessante sul mercato degli artisti con plus valore. All'arrivo di un'e-mail con tanto di link al sito di Patricia van Lubeck ed una sola frase: "questa ti piacerà" sono corsa all'eplorazione del sito web. Mi è piaciuta sì, la sua arte e la sua voglia di presentarsi in modo semplice (foto a lato). I cetrioli giganti non hanno segreti per le donne, ho sempre pensato.
Patricia ha un suo modo di interpretare e dipingere la natura che la circonda. Mi emozionano i colori e le forme, quindi raggiunge già il primario obiettivo di ogni artista: suscitare qualcosa a livello emotivo.
A ricchezza media raggiunta mi piacerebbe comprare un suo quadro, originale, ho pensato.
Ma poi la sua arte mi ha emozionato fin troppo, a tal punto da arrivare a provare la stessa sensazione che mi suscita Dalì e Botero. Ora sono combattuta, Patricia non mi sembra più così originale e fresca. Però, devo ammettere che anche copiare con stile e non essere colta in flagrante dai più è un arte.

Tuesday, November 25, 2008

Feel better


Durante una delle mie sedute di auto-analisi, detta “alieno-psicoterapia anti-arterio”, mi sono chiesta: quali sono le cose che facciamo, le persone che scegliamo, che ci fanno stare meglio, davvero bene? In base a cosa scegliamo questi elisir di buonumore?
In questa nuova era in cui siamo visti come tante piccole api di uno sciame, fluido (Z. Bauman), che svolazzano verso stesse mete indotte dai media ma non veramente volute e conosciute, che cosa ci rende api felici, capaci di prendere il volo in direzioni diverse da quelle del proprio sciame, anche se per pochi attimi, per raggiungere una nostra consapevole meta?
Qualsiasi sia la natura di ciò che ci regala serenità e buonumore, questo dovrà essere TOTALIZZANTE. Sì, dovrà azzerare qualsiasi altra forma di pensiero, ragionamento, sensazione e sentimento negativo, paranoico ed ossessivo ansioso. Noi e la cosa che stiamo facendo. Noi e la persona con cui la stiamo vivendo. Noi e la persona che vogliamo vivere.
Noi. Noi stessi, senza l’indecisione che ci assale su quale maschera indossare prima di entrare in scena. Noi stessi, senza l’ansia da prestazione mentre siamo in pieno atto e ci sforziamo di ricordare “la parte” e di sembrare più sciolti possibile nella sua interpretazione: più si è sciolti più sembriamo bravi, proprio in quel ruolo. Noi stessi, senza la paranoica ossessione di ripensare alle sbavature commesse durante la recita giornaliera, dopo.
Mi ha sempre turbato e fatto riflettere questo senso di “omologazione” che innesca “il teatrino” di ognuno di noi, ogni giorno. Ognuno di noi è convinto di “non poter essere accettato da chiunque per quello che si è realmente” e di doversi modellare a seconda delle persone con cui vogliamo\dobbiamo avere un rapporto ed a seconda di ciò che si vuole da questo rapporto. Perché siamo così ossessionati dal dover piacere a chiunque? Siamo tutti, nel nostro piccolo, degli attori provetti, alcuni con un innato senso dell’humour, i cosiddetti “giullari di corte”?
Man mano che i mesi passano (l’anno per me è un tempo troppo lungo, subisco trasformazioni\evoluzioni anche nell’arco di una sola giornata, figuriamoci in un mese!), matura dentro di me la conoscenza dei miei punti deboli e delle migliori armi per difenderli. Questo è invecchiare, Signori e Signore, e passare sempre più tempo con se stessi. Ci tocca conoscere noi stessi sempre più a poco a poco.
La prima cosa che conobbi di me stessa fu: libera sempre. I troppi anni di tolleranza finta e forzata hanno prodotto in me una sostanza stupefacente per me ma tossica per i miei “amanti”: pensiero-azione-pensiero-azione. Fin da adolescente capii che per stare bene dovevo mettere in pratica i miei lampi creativi ed affettivi: i miei gesti che sembrano “eclatanti” non sono altro che i miei momenti di azione preceduti da una irrefrenabile voglia-pensiero di alcune cose, situazioni, persone. I gesti eclatanti mi fanno “stare bene”. Farli (se geniali nella loro spontaneità ed amore, qualsiasi sia il tipo d’amore, anche riceverli).
Il latte macchiato, un gelato alla nocciola artigianale fatto come si deve, un buon toast, cucinare per qualcuno (per me soltanto, spesso, sono pur sempre qualcuno!), Velvet o un buon libro davanti al camino d’inverno, flashata dalla lucine che si “accendono e si spengono” dell’albero di Natale gigantesco (che faccio con cura in anticipo, metà Novembre, e disfo in largo ritardo, metà Febbraio) sono le piccole cose che mi fanno sorridere “del niente”.
La compagnia delle persone che ho avuto la fortuna di conoscere e di “trattenere” perché volevo facessero parte dei miei momenti è un’altra “pillola” per il mio buonumore. I miei cari sono quasi tutti persone TOTALIZZANTI: in loro compagnia non sento la necessità di avere attorno altre persone e di essere in altre circostanze, situazioni.
Da dottoressa, prescrivo, contro l’incupirsi delle proprie idee, voglie ed iniziative, una buona dose di cose\persone TOTALIZZANTI, da prendere fin dal mattino, al risveglio. Non c’è cosa migliore dello svegliarsi e poter GIA’ essere se stessi.

Wednesday, November 19, 2008

L'invasione dei giovani tronisti

Da qualche giorno mi alzo al mattino con un pensiero fisso e poco piacevole: che cosa far fare ed insegnare a Katia del Grande Fratello.

“Ho dato il là” mesi fa (forse non sono stata molto cortese ed educata) alla creazione di soprannomi ai colleghi più strani e “meno dotati” (cerebralmente e umanamente). Il nostro terzo piano è popolato da principi persiani “Babà”, orchi bassottelli con bulbi oculari protesi un po’ troppo in avanti e da pochi giorni da una giovane aspirante velina dai capelli “alla Katia GF”.

Katia GF è alquanto sveglia. Ha voglia di fare. Però ha anche tanta voglia di farsi fare.

Da chi ancora non lo so, vorrei indagare, ma al momento non ho né voglia né energie (leggere come “tempo da perdere”).

La sua scrivania è ora di fianco alla mia. Lei mi osserva, del resto sta imparando “il mio ruolo”. Mi sembra, quindi, giusto parlarle di me, almeno delle cose più basilari che un buon essere pensante dovrebbe conoscere di me e di ciò che di buono, poco, ho da poter offrire.

Le ho fatto cenno della mia passione spudorata per Sex & the City: “oh, in quel telefilm fanno cose strane”. Le ho mostrato i cuccioli cercamici zoo3 appena usciti in edicola, ancora più morbidi e pelosi: “ma tu hai passioni strane!”. Le ho offerto un’arancia: “oh, no, io mangio solo mele”. Le ho parlato di viaggi fatti e da voler fare: “quest’estate sono stata a Marina di Ravenna però in Duna c’era meno gente del solito”.

Poi mi ha chiesto dove fosse Benevento. E non ha riso alla mia battuta su “L’Aquila città” scritta con la CQ.

Mi arrendo: non si riesce ad insegnare niente a queste generazioni di tronisti. Nemmeno a stare umilmente su un trono (cioè, scomoda sedia da ufficio, per di più senza rotelle).

La disgrazia imminente

C’è un motivo “tecnologico ed elettronico” per cui il Blackberry non dorme mai. Ci illudiamo di spegnerlo poco prima di addormentarci, durante i momenti in cui non possiamo (dovremmo) essere disturbati. Invece, lui è con noi, non dorme. Cerca, invano, di essere amico fedele, di non abbandonarci, ma quando meno te lo aspetti “sviene”.
E sviene nel bel mezzo di una comunicazione, mentre parli con tono stanco e qualsiasi, dall’auricolare, tornando dal lavoro, guidando a discreta velocità in autostrada. E proprio quando pensi che sia caduta la linea e di non aver la forza (voglia) di richiamare, godendoti gli ultimi chilometri che ti separano da casa in completo silenzio, il tuo piccolo mondo di affetti comincia a muoversi, quasi “ribollendo”.
L’amico Blackberry è un duro. Non sviene come noi comuni mortali: ci afflosciamo a terra, come pere mature cadute da un albero, completamente senza cenni di vita per qualche secondo. Lui continua a muoversi: riceve ed invia messaggi, e-mail, ma non ha rete per fare e ricevere chiamate.
A linea apparentemente caduta, mi provano a richiamare. Rete non disponibile. L’essere umano è di indole pessimista ed un po’ “porta-sfiga”: “era in autostrada, stanca, non riesco più a prendere la linea, la comunicazione si è interrotta improvvisamente”, UGUALE, “ha fatto un incidente”.
Partono le catene di telefonate, ricerche ed interrogativi sulle mie precise ed eventuali posizioni satellitari.
Nel frattempo io continuo a godermi il silenzio nei miei ultimi chilometri di viaggio.
Arrivo a casa, pioviggina. Metto la macchina in garage, salgo lentamente le scale, apro la porta di casa, saluto i miei cani che mi aspettano con ansia perché affamati, mi tolgo abiti ormai troppo “impegnativi” da tenere ancora addosso, faccio una lunga minzione e mi dirigo in cucina.
Stasera un qualcosina di leggero, penso. Dispongo sul tavolo le vittime della mia subitanea carneficina, quando sento in lontananza un rimbombare di passi veloci e pesanti ed una voce tuonare: “Siamo tutti in pensiero!”.
“Meno male, pensare è una buona cosa, figuriamoci esserci dentro (IN) ed in compagnia (SIAMO)” dico io.

Friday, November 14, 2008

E' il momento


Nella vita certi eventi capitano così di rado, che quando capitano meritano una particolare attenzione: come per la cometa di Halley, le eclissi solari, le occasioni irripetibili.

In una piovosa serata infrasettimanale, sola in penombra ad inebriarmi di un ottimo incenso acquistato in Giappone pochi mesi fa, il respiro affannoso del cane sul tappeto, le prime parole dell’ennesimo episodio di Sex & the City che rimbombano nella mia testa per un momento tanto lungo quanto l’innescarsi della mia reazione emotiva.

Quali sono state le occasioni irripetibili nella mia vita? Quali ho colto?

Forse tante, perché ho sempre deciso di fare tante cose.

Ma non di tutte queste posso parlarne con vera emozione (probabilmente perché di emozione non ne hanno scaturita un granché in me).

Però di una un’emozione irripetibile provocata da un’occasione irripetibile potrei parlare.

Quando si modifica qualcosa dentro ognuno di noi, si modifica anche il nostro potenziale “vivere futuro”. Si percepisce il nostro cambiamento quasi sempre dopo che è avvenuto, o comunque cominciato da tempo, perché il confronto con “il noi di prima” dimostra a noi stessi un cambiamento che non può non essere percepito “perfino” da noi stessi.

E’ probabile che il proprio cambiamento venga percepito prima da chi ci osserva da fuori. Noi siamo troppo impegnati a stare male, a sentirci strani, a non “avere voglia delle cose che facevamo prima” (o che accettavamo).

Una mattina nuvolosa e calda, in un tempio scintoista di Kyoto, quest’estate, ho conficcato alcuni incensi accesi tenuti insieme da una fascetta di carta viola nella cenere, quella cenere che un tempo erano altri incensi bruciati a loro volta e conficcati nella stessa cenere. Quando i credenti nel scintoismo pregano o cercano un contatto con le loro spiritualità accendono incensi. Mi ricordo di aver fissato per qualche secondo le punte dei bastoncini ardere velocemente, poi pian piano rallentare il loro corso. Lessi questo come un cattivo segno. So cosa dissi tra me quando guardai gli incensi in quei pochi secondi. Chiesi un’occasione irripetibile.

Non so quanta forza mi ci sia voluta per cercare un forte cambiamento. Forse non tanta quanta invece mi è stata necessaria per accettare un’occasione irripetibile. Del resto voluta. Capitata nel momento stesso in cui sarei stata in grado di coglierla.

Ecco, so che non è il “cambiare lavoro”. So che non è “il dover ricominciare ad ingranare in un altro ambiente”.

E’ e sarà il prendere quello che mi spetta, perché io l’ho aspettato tanto. E’ il ri-vedermi adolescente, studentessa universitaria fantasticante su come sarebbe stato bello “lavorare lì dentro”.

Ho patito nell’attesa come non mai. Sintomo dell’importanza che aveva (avrebbe potuto avere) anche un piccolo gesto di attenzione nei miei confronti. Un’azienda che mi ha scaturito (scaturisce) emozioni simili ad un Uomo. Speriamo sia quella giusta, un po’ come l’Uomo.

Che poi non ho ancora capito quando un qualcosa “fa per noi”, “è giusta per noi”.

Forse, semplicemente, ci piace.

Monday, November 10, 2008

Devo scriverne anch'io

L'amico dell'Alieno ne ha già parlato. Ormai ne parlano tutti e tutti ne hanno già parlato. Io non ne vorrei parlare ma ne sono vittima quanto gli altri, quindi, ne parlo.
Facebook è diventato un pò come il cellulare a fine anni '90. Ancora non tutti ce l'avevano, tutti lo volevano avere. Adesso tutti ne hanno più di uno.
Ora quasi tutti siamo "facce da libro" e "sul libro". Fra poco tutti saremo "facce da libro" e le facce più belle e le personalità più spiccate diverranno "facce da segnalibro".
Ho concesso la mia faccia a Facebook prima di andare in vacanza, a giugno\luglio. Ho trascorso il periodo pre-vacanze in preda ad una crisi epilettica da ricerca e disperato bisogno di "fama". Perchè di "piccola e patetica fama" si tratta.
Sotto il falso desiderio di trovare vecchi amici che altrimenti non avremmo mai potuto trovare in altro modo (e voluto), insceniamo questo teatrino delle relazioni che non si spezzano, che facciamo in modo che rimangano ben salde, quando l'unica cosa che ci interessa è visionare le foto dei nostri conoscenti per vedere se conducono una vita più divertente della nostra, se hanno avuto figli, se sono invecchiati bene, se siamo ancora noi i "più in forma ed i più belli". Controllare che lavoro fanno ora, con chi sono a loro volta in contatto è la fase successiva di questo macabro gioco del "sapersi osservati e dell'osservare".
Rimango iscritta a Facebook e continuerò a caricare foto della mia vita, le foto più belle in cui sprrido di più, arricchendole di descrizioni divertenti e nostargiche insieme. Se proprio devo mettere in scena la mia vita, che sia un gran bello spettacolo (per me e per chi mi guarda)!

Purezza


I malati di parole “scritte e non”, i fanatici del trasportare anche la più minima sensazione in parole che consentano la sua descrizione e narrazione, come me, hanno le loro parole preferite. Oppure, nei peggiori dei casi, se le inventano.

La prima parola che ho inventato è stata “emmonete” per poter esprimere il suono delle monetine in tasca e nello stesso tempo la loro urgenza di averle nel caso in cui si deve pagare qualcosa “in spicci”. Era il lontano 2000. Da quel momento le parole non presenti sul dizionario della lingua italiana perché inesistenti ma fortemente onomatopeiche e piacevoli per il loro suono e le immagini che richiama il loro sentire sono diventate la mia passione.

Il “pitirri” non esiste ma per me è quando una crepes oppure una frittata non tiene la forma una volta girata dall’altro lato per completare la cottura. Il dorato cerchio si spappola e si crea delusione e sconforto: “anche questa volta ho messo troppo latte, ancora un pitirri”.

L’amico che “non ci arriva” ma non può essere offeso diventa un “idioga”. Mai giudicare, non ne sono capace e non reputo di averne nessun diritto, ma la palese “idiozia” deve essere necessariamente fatta notare alla persona cara dandole dell’idioga. La persona capirà e rifletterà sull’errore.

Esiste anche il meraviglioso mondo delle parole esistenti e grammaticalmente corrette. Le mie preferite sono “margherita” e “purezza”. La prima perché il suono mi ricorda un fiore con moltissimi petali sottili, mai nome comune fu più azzeccato. La seconda perché mi ricorda una scopa che spazza un meraviglioso pavimento color marrone\grigio, l’idea della pulizia e dello sgombro da cose inappropriate.

La cosa per me si complica perché associo una parola di cui ho voglia con una cosa da fare. Se ho voglia di “purezza” devo andare a correre e camminare nei prati. Ma non prati qualsiasi: quelli dove sono cresciuta e vivo. Se mi viene voglia di purezza e non sono a casa “sono guai”. In quel caso dovrò mangiare gelato alla nocciola. Perché il gelato alla nocciola sia un mio feticcio alimentare e mentale non mi è ancora chiaro.

Mi è chiaro, però, perché solo i campi “delle mie origini” mi facciano questo effetto: era l’unico luogo che potevo raggiungere da piccola con le mie gambe, scappando da casa. Un po’ come fare “piazza pulita”, un po’ come raggiungere la purezza.

Saturday, November 1, 2008

Quello che siamo


Anche le raccolte di racconti hanno i “loro perché”. Soprattutto se i racconti seguono un filo comune, almeno uno stesso argomento.
No geisha, piccola biblioteca Oscar Mondadori, è un libricino che qualunque donna dovrebbe leggere.
Il filo comune dei racconti, ben otto, è la trasformazione della donna nel corso della sua maturazione, psicologica e fisica, raccontata e descritta da otto scrittrici, di tutto spessore, giapponesi tuttora in vita.
Donne giapponesi nel Giappone di oggi sono le protagoniste, del libro, solamente, perché le protagoniste di ciò che viene narrato sono le donne in crescita in qualsiasi parte del mondo.
Mi duole dover ammettere che mi sarebbe piaciuto leggere “un qualcosina di simile” scritto da donne occidentali, soprattutto europee, non “gasate” americane. Forse, non siamo ancora così attente ai nostri cambiamenti personali e sociali.
Ruth Ozeki, scrittrice e regista giapponese trapiantata, di sua scelta, a New York, mi ha convinto non solamente ad acquistare il libro ma ad iniziare la sua lettura in macchina (dopo essermi chiusa dentro visti i tempi che corrono) appena uscita dalla libreria grazie a queste parole: “le storie riflettono le esperienze di protagoniste molto diverse tra loro. Le storie sono, a tratti, delicate ed esplicite, incalzanti e aggressive, dolci e accattivanti, intense ed ironiche. Affrontano ogni tema, dalla scoperta della sessualità all’amore, dai maltrattamenti alla perversione, dalla maternità al divorzio, fino alla morte. E anche se così diversi nei toni e nel contenuto, questi otto racconti hanno in comune un approccio narrativo coraggioso e concreto, che appartiene decisamente all’immagine della donna nel Giappone di oggi. Le donne giapponesi hanno fatto tanta strada dal mondo delle geishe e di Madame Butterfly. Ma quanta?”
Queste donne siamo noi, delicate ma esplicite, incalzanti ed aggressive ma dolci ed accattivanti, intense ed ironiche (soprattutto auto-ironiche).
Queste donne siamo noi, che scopriamo prima il sesso con timore e poi l’amore, per poi arrivare, finalmente, a far sesso con amore e con chi amiamo. Che ci maltrattiamo nel rimanere e nel creare situazioni perverse fino a farci veramente del male. Che vogliamo diventare mogli, compagne. Che vogliamo diventare madri. Che vogliamo diventare, poi, autosufficienti e reattive. Che vogliamo, ogni tanto, morire.