Thursday, September 25, 2008

Deficere iuvat

Le numerose idee, pensieri e ragionamenti (che spesso divengono conclusioni) mi stanno facendo del male. Una mente troppo movimentata prima o poi comincia a “far rumore”, come se le rotelle del proprio meccanismo mentale all’interno, sempre in movimento, cominciassero a cigolare. Cigolano per mancanza di lubrificante, che nel mio caso è il riposo. “A chiunque e qualunque e chicchessia” (cit. Antonio Albanese in Psicoparty durante l’interpretazione del politico siciliano corrotto) mi dica di fermarmi, io non darò ascolto. Ma so che dovrei farlo. In questi giorni mi sono fermata, pochissimi giorni. Osservare le cose in movimento da fermi è molto differente dal godersele e vederle mentre si è in movimento, quanto o forse più di loro. Lunedì pomeriggio ero seduta in sala d’aspetto all’Ospedale Maggiore di Parma, reparto di Neurologia. Dover fare una visita specialistica in neurologia potrebbe avere molteplici considerazioni: la mia, molto semplice, è che soffro di emicrania con crisi trafittive da quando ero piccola piccola e pian piano mi sto gustando tutti i Centri Cefalee del Nord Italia. Mia madre era seduta al mio fianco. Mi piace aver mia madre seduta al mio fianco quando aspetto, quando aspetto qualsiasi cosa. Poco più distante da me, un’altra madre ed un’altra figlia, affetta da emicranie da ormai 20 anni che attende il suo turno, con più impazienza di me. L’ansia che trasmettono quelle due donne mi fa quasi pensare che non sia emicrania il loro problema, almeno non solo. Questa volta mi sono fatta visionare da un luminare, si, quei medici ricercatori anziani che senza che tu apra bocca hanno già capito il tuo problema (e si spera la soluzione) e che ti infileranno, senza che tu te ne accorga, nelle percentuali delle loro ricerche mediche universitarie. Io faccio parte dei soggetti affetti fa emicrania perché predisposti alla nascita (cosa significa?), di quel 10% che ha le crisi trafittive, di quel 5% che le ha solo in un emisfero cerebrale, di quel 60% che ha crisi trafittive durante un attacco di emicrania (e non da un momento all’altro). Non so se mi converrebbe fare una moltiplicazione di percentuali, un calcolo probabilistico su quando perderò definitivamente la pazienza, oppure una frazione che mi indichi esattamente cosa dovrò fare per non farmi venire voglia di “dare craniate” contro il muro un giorno si ed uno no. Visto i centoni di euro pagati, almeno la formula corretta avrebbe potuto darmela!!! Ed invece no, mi sono allontanata dopo una visita meticolosa di un’ora e 20 minuti, con “cura preventiva” a base di “droga sedativa” prescrittami ed un po’ di lusinghe: “Signorina, lei mi sembra precisa e studiosa, sono sicuro seguirà le mie indicazioni”. Seguono due giorni di riposo a casa dal lavoro, per l’ennesima emicrania fin dal mattino del giorno dopo. Decido di fare, per quanto mi è possibile visto il mal di testa, alcune piccole cose che non si ha mai il tempo e la pazienza di fare durante la settimana ed il tempo libero. Ho sfogliato e letto tutte le riviste arretrate di moda rimastemi da prima della partenza delle vacanze estive. E scopro che Lapo Elkann sta con sua cugina, che è stato proclamato “uomo più fashion cool” del mondo dalla stampa americana (gli americani non hanno gusto proprio in niente), che l’inverno è all’insegna del colore nero (non se ne può più), ma di un nero un po’ grigio ed un po’ blu (cioè, non nero). Ho rivisto il finale dei miei 10 film preferiti memorizzati sul mio pc portatile, gli ultimi 15 minuti di ognuno: Lost in Translation, Il diavolo veste Prada, Secretary, Ultimo tango a Parigi, Legami, La mala education, Sideways, Sliding Doors, Mare dentro, Amici miei III. Ho più volte tentato di iniziare un nuovo libro oltre a quello che sto leggendo, poco soddisfacente, ma senza risultato. Ho guardato un po’ di tv, che non guardo mai nemmeno nei week end. “Ogni giorno ha qualcosa da dirti”, pubblicità Amplifon; “Ciò che ti rende felice non è fare ciò che vuoi, ma volere ciò che fai”, frase di un corteggiatore alla tronista di turno di Uomini e Donne, “E’ più importante apparire o essere? E se potessi apparire per ciò che sei?”, pubblicità Dublò Fiat; “Prima o poi ci si dovrà confrontare con se stessi, non si può scappare”, Simona Ventura ad un Giuseppe Lago mezza-sega durante un collegamento de L’isola dei Famosi. Ho immagazzinato più perle di saggezza che mai in pochissimo tempo e davanti ad uno strumento molto controverso, per ciò che trasmette. Concordo, in tv si trasmettono solo cagate. E la tv mi fa tornare il mal di testa. Anzi, le cagate mi fanno venire il mal di testa. Che sia questa la vera ragione scatenante della mia sofferenza? Si, sento troppe cagate intorno a me…

Monday, September 22, 2008

Recidiva sempre

In quarta liceo presi il mio primo ed unico “rapporto”, sì, una “nota”. Un professore-personaggio, quelli che fanno della pazzia il loro canale di trasmissione delle informazioni, mi riprese una prima volta dicendomi, durante l’ora di ricreazione, “Alessandra, togli i piedi da sopra la sedia”. Io, seduta sul banco, li tolsi, nonostante non sapessi se fosse nel suo frangente serio o quello pazzo. Mi stavo mangiando un toast portatomi da casa, pausa delle 11.00, in soprappensiero appoggiai nuovamente i piedi sulla sedia. “Alessandra, sei recidiva. Ti do una nota”. E questa folle nota me la diede e scrisse sopra il registro di classe.

Da quel giorno la parola RECIDIVA è una delle mie preferite.

Sono sempre recidiva, tranne nell’errore malsano. Mi è concesso ripetere l’errore sano.

L’errore malsano è quello che razionalmente percepisci come negativo, dannoso alla tua amata persona (eh si, ci si deve amare per andare d’accordo con se stessi). Pian piano si impara a non recare danno a se stessi per rendersi, se non felici, almeno sereni o tranquilli. L’errore sano è quello considerato eccessivo, dannoso, negativo per “i più”, per la massa, la maggioranza, di cui, francamente, non mi curo. Quindi, sono recidiva negli errori sani se mi divertono e mi arrecano positività.

Venerdì sera sono stata recidiva, per esempio, nel tornare al concerto di Vasco Rossi a Bologna. San Siro a giugno non mi aveva saziato. Il mio essere recidiva mi ha portato a prendere una piadina con salsiccia e cipolla all’una di notte, prima di mettermi in macchina e farmi un’ora di coda per tornare a casa. L’errore sano è stato ripetuto: gustosa “stà piada” e procuratrice di piacere, non vi dico il bruciore di stomaco il mattino dopo…

Passeggiata millenaria

Sono cresciuta “crescendo” Denti Aguzzi. Denti Aguzzi è mio cugino, il più piccolo della famiglia, ed è stato soprannominato “denti aguzzi” da me perché fin dai primi anni di vita aveva fatto dei dinosauri e di tutte le loro specie e curiosità il suo obiettivo di vita. È un legame speciale quello con Denti Aguzzi, non solo perché hanno voluto dargli il mio nome, Alessandro, ma perché è stato fin da subito più un “nipote”, quasi un “figliolo”, più che un cugino. Il rapporto molto intimo con mia zia ha reso suo figlio quasi un figlio mio. Ci confidiamo e lui mi consiglia con gli occhi da bambino, spesso i più sinceri. Anni fa nacque tra noi due un modo di dire che fece il giro della famiglia e dei conoscenti. “Millenario” era l’aggettivo che racchiudeva una cosa fantastica, bellissima, la “più” di tutte. Denti Aguzzi aveva creato nella sua fantasia esseri millenari, draghi, dinosauri, mostri: li disegnava e ne parlava con me continuamente. Io avevo creato nella mia fantasia piccole cose che avrei voluto fare “millenarie”: mi tornavano spesso in mente, mi ripromettevo di farle. A giugno ho fatto una passeggiata millenaria, con ballerine bianche e giacchetta di cotone bianca. Ho camminato per ore in stile Coco Chanel attraversando il nostro ponte, mio e di Denti Aguzzi: Pont Alexandre III a Parigi. Chiunque sia di sesso femminile e sia cresciuta con Vogue ed Elle sotto i libri di scuola, guardando Colazione da Tiffany almeno 70 volte, sa che passeggiare per Parigi è un po’ come aver esaudito un piccolo sogno. Se poi si è a Parigi durante la mostra in onore dei 50 anni di Valentino, si riesce a trovare il negozio di Christian Roth ed a comprare gli occhiali da sole quasi perfetti, si è capitati in un hotel a 20 metri da Parc du Champ de Mars con finestra sulla Eiffel Tower, beh, “avrei potuto anche morire subito dopo”, il più che volevo nella vita era stato fatto. Parigi non ha rivali. E non credo solo per le “fashion addicted”. Si respira aria bon ton e si fanno sulla Senna “passeggiate millenarie”.

Monday, September 15, 2008

Il buon vivere 1

Quando si decide di mettere un numero dopo un titolo, seppur banale, il significato è uno solo: seguiranno altre parole sullo stesso argomento, se non proprio sullo stesso… argomento affine.

Ho avuto l’illuminazione su questo post sabato sera: serata piacevole, a mio agio perché facevo cose che a me piacciono molto. Ve ne volevo parlare.

Erano settimane che programmavo il cinema, finalmente dopo la pausa estiva, ed un film che si è rivelato non così “male”: x-files, voglio crederci. Anch’io voglio credere di essere andata al cinema per vedere e riuscire a godermi un film del genere. Ma è successo. Ci sto credendo… perché infondo il “paranormale” della storia non ha niente di così sconvolgente del paranormale che vedo nelle persone ultimamente.

Skully e Molder quasi convivono, si amano, ma si “beccano” in continuazione. Ottima lezione di “terapia di coppia”: due caratteri molto forti avranno di che rimboccarsi le maniche.

Il protagonista del film è un prete pedofilo (32 chierichetti… mica noccioline) che ha delle visioni su scomparse ed omicidi anomali. Poi gliene succedono di ogni. Ottima lezione di “vita”: prima o poi tutto torna.

Skully salva la vita a Molder. Conferma della distribuzione delle “palle” errata: dovevano essere consegnate al genere femminile.

Ecco come un filmetto da media\alta tensione ci insegna alcuni pilastri del quotidiano vivere.

Post cinema di seconda serata: musica metal\rock\industrial di quella da intenditori, locale gotico, Vampyria. Hemoglobyn. Creap n°2. E la serenità… di ascoltare musica che piace e mangiare e bere bene, parlare con i propri amici del film visto poco prima, della propria vita che va a rotoli, ridendo per sdrammatizzare e sentire “io Alle voglio capire come ha fatto in dieci anni ad andare tutto in merda”. Guardarsi negli occhi e ridere, sapendo che “in merda” sta andando tutto davvero.

Sapere, però, di essere sempre in paranoia ed ansia per il presente, ma lottare per non “fare andare in merda” anche il futuro.

Rendersi conto che si è più uniti di quel che si pensi, perché ognuno ha i propri remi… ma la barca è la stessa.

Questa è una considerazione che mi migliora la vita.

Lost in translation

Il sottotitolo del film (forse non troppo celebre come dovrebbe essere) di Sofia Coppola, Lost in Translation è “l’amore tradotto”. Come tutte le traduzioni italiane dal titolo originale inglese o in altra lingua, queste due parole vicine e legate al film, “l’amore tradotto”, stonano perfino.

E’ in assoluto il mio film preferito, quei film che riguardi 40 volte nel corso di un anno (eh si…), che sai quasi a memoria, ma che ti scordi sempre, perché tutte le volte che lo riguardi provi la stessa emozione, coinvolgimento e stupore della prima.

Stupore per la genialità del regista nel girare un film che parla di tutti noi e delle nostre anime, in una città “difficile”, Tokyo, con una semplicità e fluidità quasi da “cartone animato giapponese”.

Sono alla 32esima visione del film. La posologia prevedere: prendere il pc portatile, andare sotto le coperte dopo aver sistemato i cuscini sul letto, prendere un “qualcosa” per asciugarsi all’occorrenza il viso (piango sempre). Assumere quando si è: depressi, stanchi mentalmente, delusi dalla vita, leggermente “incazzati”.

Efficacia pari al 90% prima di vedere dal vivo i luoghi del film.

Rivederlo dopo aver vissuto Tokyo e la sua gente, 100%.

La critica cita: “interamente girato a Tokyo, il film di Sofia Coppola è un caloroso omaggio alla natura delle amicizie vere e alla città di Tokyo. Lost in translation contempla i legami inaspettati che stringiamo, i quali potrebbero interrompersi oppure durare per sempre.”

Non voglio scrivere pensieri sulla trama molto sottile o sulla bellezza del film. Sono positivi.

Voglio liberare quella grossa emozione che mi ha regalato Tokyo nel mese di agosto. Chiunque torni dal Giappone non riesce a non parlarne bene, lo so. Ma io non riesco a non pensare a quanto sia intriso di semplicità e valore tutto ciò che abbia visto a Tokyo, Nara, Kyoto, Gotemba, Mishima… Fare la vita “da cittadino” di Tokyo e non da turista ti fa riflettere su quanto sia “sicuro”, perfetto, efficiente, sereno il loro stile di vita. File chilometriche ovunque, centinaia di persona ad ogni semaforo, metropolitane e treni pieni ad ogni ora, locali sempre al completo: eppure tutto si muove, velocemente, nessun tipo di ingorgo, un posto a sedere che prima o poi arriva, serenità perfino nel correre per strada perché si è in ritardo. Nessuno sclera. Ogni gesto fatto da un giapponese ha una pacatezza ed una cortesia che rasserena i nervi. Ogni parola detta da un giapponese non verrà capita, se non in inglese (inglese non troppo asiatico però, altrimenti è come se fosse un’altra lingua), ma si farà capire per aiutarti.

Sentirmi sicura per strada, in centro città, è una sensazione che in Italia non ho più. Camminare sola di notte per Tokyo, Kyoto, non girandomi in continuazione per vedere se qualcuno mi seguiva…è stato come tornare piccola e provare la stessa sensazione di quando camminavo mano nella mano con mia madre.

La cura dei particolari, dei luoghi è ciò che per primo colpisce, ma solo visivamente. La cura psicofisica che i giapponesi mettono in ogni gesto è ciò che colpisce umanamente.

Rivedere Lost in Translation dopo essere stata a Tokyo è stato come riprendere quel volo interminabile e tornare. Gli stessi luoghi visti poche settimane fa, gli stessi rumori… quella sirena non angosciante dell’ambulanza che sentivo ogni mattina dal letto dell’hotel quando aprivo il primo occhio, quel “din” che hanno tutti i palazzi a più di 30 piani che ti avverte che sei arrivato al piano desiderato, gli ascensori a tutto specchio con panoramica da vertigine al lato esterno, quegli inchini tutte le volte che esci da un locale o da un negozio avendo comprato qualcosa.

Non credo sia solo un’impressione positiva di una nazione imparata a conoscere. Credo di essermi innamorata di una cultura opposta alla mia e di tutto ciò che la circonda.

Devo pensare a quando poter tornare….


Friday, September 12, 2008

Today at lunch time....

Sono andata a pranzo con una collega (che poi è divenuta nel corso dei mesi una cara amica). Non è sempre così scontato e facile fidarsi dei colleghi di lavoro.
Due donne, al tavolo di un bar, in pausa pranzo parlano di... uomini e scarpe.
Sulla seconda abbiamo risolto molto velocemente: quest'anno andrà ancora la vernice ed i colori caldi, prugna, viola ed antracite. Le ballerine e decollete resisteranno, anzi, diverrano il passepartout di stagione.
Sul primo argomento siamo ancora in fase aperta di discussione: lei che attende una chiamata dal "bastardo" che piace tanto ma sfugge sempre, io che divengo troppo disillusa, quasi delusa...
Ma la Fede forse ha la soluzione giusta ma che difficilmente si riesce a mettere in pratica: "se ci pensi bene Alle, l'amore è la cosa... anzi, dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo. Ci si piace, si va d'accordo, basta, vogliamoci bene. Ed invece no, dobbiamo farci "seghe" sui se, i ma, i dopochè... sulle strategie anche solo per piacere."
Mi chiedo, giustamente, perchè si conduca una vita così,



quando se ne potrebbe condurre una cosi:

Thursday, September 11, 2008

Mi è preso il trip per Lucarelli

Domenica scorsa sono stata a Mantova al Festival della Letteratura.
Mantova è bella, è sempre stata bella ed è bella in qualsiasi stagione.

Devo ammettere, però, che in occasioni speciali si fa ancora più bella.
Gremita di gente intorno alle piazze del centro, davanti ai teatri, sembrava "la città della cultura": persone e persone con sete di condividere, assorbire come spugne, divulgare tutto ciò che aveva a che fare con la scrittura e con il piacere di leggere.
Ho preso parte ad un'intervista a Carlo Lucarelli nel pomeriggio sull'importanza dell'incipit di un libro, di un racconto.
Per Carlo l'incipit è il pezzo di racconto, storia, che va dalla prima parola al primo punto ed a capo. Ed è importante che sia "efficace".
Carlo mi ha "intrippato". Non avevo mai letto nulla di lui e non lo avevo nemmeno mai graziato di una visione attenta di Blu Notte.
Domenica sera, alle 21.00 , ero incollata davanti alla tv, raitre, per godermi la mia prima puntata di Blu Notte su Tangentopoli.
Bella.
Adesso ho comprato un suo libro, perchè quando mi prende un trip difficilmente mi passa con poco: Nuovi Misteri d'Italia.
Chissà quanto mi durerà...

Wednesday, September 10, 2008

The Urban Etiquette Guide

Su un numero de The New York Times scorsi, mesi fa, un articolo che fece al caso mio, “mio” in quanto sempre attenta a mostrare rispetto ed educazione verso il prossimo: Guida alla buona educazione in pubblico (“New rules for getting along in an endlessly wired, ruthlessly crowded, sexually libertarian city”).

Letto l’articolo con curiosità ed interesse, lo immagazzinai nella memoria fino ad un bel giorno (poche settimane fa), quando in metropolitana a Tokyo mi accorsi di essere l’unica ad avere gambe accavallate ed a parlare ad alta voce col vicino di seduta. Ripensai a quella famosa “etichetta del buon cittadino” letta su un quotidiano di New York. E pensai a quanto noi italiani siamo riconoscibili, volenti o nolenti, all’estero.

“Etiquette. The word may seem quaint and ironic to progressive New Yorkers, bringing to mind doilyed scenes of high tea with extended pinkies and stilted conversation. After all, many of the original rules were based on traditions stepped in emotional constipation – hardly appropriate for a modern, espressive, liberated city. But, in fact, the nature of New York is precisely why we need etiquette more than ever. First of all, it’s so crowded!”

Al di là del classico approccio americano alle cose e persone iniziale (motivare sempre il perché e mostrarlo come spinta all’esecuzione delle cose ancor prima di spiegare le cose da fare), non pensiate che le classiche norme “dei bravi cittadini in strada” siano sufficienti: mantenere la destra sui marciapiedi se si cammina lenti o con mezzi ingombranti, non osservare una donna camminare e rivolgerle apprezzamenti e non fumare nelle vicinanze di qualcuno anche se si è all’aperto sono semplice routine da quieto vivere per le strade di New York.

L’etichetta del “buon newyorkese” si dilata soprattutto verso le sfere quotidiane più personali.

Cosa fare dopo una notte in compagnia di una nuova persona? “What obligations does one have after a one-night stand?”

Tutto ciò che si dovrà fare dopo deve essere coerente con quanto fatto intendere o detto durante la nottata: se ci sono aspettative per un futuro, pur anche breve, bisognerebbe rispettarle. Se non sono state fatte false illusioni, bisognerà essere semplicemente educati: se la liaison ha avuto luogo nel proprio appartamento una semplice colazione insieme il mattino dopo è più che sufficiente, ma è importante non dilungarsi e non mostrare troppa “confidenza” (alimenta le aspettative dell’altro). Se tutto ciò che doveva succedere è accaduto nell’appartamento altrui, basterà salutare dopo essersi esibiti in una conversazione di circa 20 minuti (“engage in light caressing and conversation for at least twenty minutes”) o, nel caso si voglia fuggire prima ancora che il\la partner si svegli, lasciare un biglietto, anzi, un post-it: SEI STATO GRANDE STANOTTE. Tassativamente vietato chiedere e dare il proprio numero di telefono se non si vuole essere ricercati (è bene non inventarselo o dare il proprio numero cambiando una cifra… o due se si è più cattivi).

Chi paga il conto? “Who pays the bill on a date?”

Paga chi invita, chi propone. Vige ancora la cavalleria, però: dovrebbe comunque pagare l’uomo. È buona norma dare una possibilità agli uomini non molto svegli: la “dama” dovrebbe alzarsi per andare in bagno a fine cena e dare la possibilità al “damone” di chiedere il conto e saldarlo (in modo da non far vedere nemmeno QUANTO si è speso). È così brillante sentirsi dire: “andiamo cara, è tutto a posto”. Difficilmente un uomo lo farà anche se voi vi sarete chiuse in bagno per mezzora, quindi: offritevi, donne, di pagare la vostra parte. Se il vostro compagno di bevute e mangiate accetta, cercate di non farvi venire un’indigestione e cercate un nuovo compagno.

Per quanto tempo è accettabile mostrare le proprie nudità? “How much locker-room nudità is acceptable?”

Essere nudi in uno spogliatoio è concesso e doveroso, inevitabile, ma nel caso si abbia qualcosa con sé che possa essere usato per coprire i genitali… è bene usarlo.

Vi ho accennato alla compostezza dei giapponesi sui mezzi pubblici. Gli Americani non sono proprio “zen” e silenziosi. Sui metro di New York, fra le “Rules of the underground” si legge: #7 – Lie down on subway only if dead. A New York accettano persone sdraiate sulla metro soltanto se morte.