Sunday, May 31, 2009

Come volare mentre tutti camminano

A Collecchio, provincia di Parma, c’è un giardino pubblico, il “parco Nevicati”, in cui è possibile fare amicizia con caprette, muli, unicorni falliti (poiché pony bianchi senza unicorno), scoiattoli e conigli nani. Il parco non è immenso ma regala la possibilità di conoscere forme di vita quotidianamente lontane da noi.
Poco distante, il parco regionale dei
Boschi di Carrega, in cui animali se ne vedono ben pochi, ma di chilometri a piedi o in mountain bike in mezzo ai boschi se ne possono fare ben tanti.
L’itinerario perfetto per smaltire “nervi densi di stress e settimana lavorativa da dimenticare”: in sella ad uno scooterone raggiungere il parco Nevicati, cercare Marilena, la capretta femmina gravida più dolce del branco, fare due chiacchiere con lei e scambiarsi carezze; cercare Arturo, lo scoiattolino nero più scattante che saltella da un nocciolo all’altro sul sentiero est: vi sembrerà di essere all’interno del cartone “la gang del bosco”; dirigersi in scooter all’area attrezzata dei Boschi di Carrega, a 10 minuti di distanza, prendere il sentiero che vi porta ai laghetti e che per un’oretta e mezza vi costringerà a non vedere altro che alberi e foglie. Tornare verso la civiltà in sella alle due ruote, a velocità media, addentrandosi nel centro di Parma, verso sera, immersi nelle acacie in fiore dei viali, percorrendo il lungo fiume e percependo, quasi, la stessa atmosfera ed aria che c’è a Parigi in primavera. Sforzandosi si riesce: in fondo Parma doveva essere una Parigi italiana in miniatura,
nei sogni di Napoleone.

Il genio prende forma

Maria Grazia temeva mi fossi dimenticata due paia di sandali per sbadataggine in camera, dopo averla lasciata quel giorno stesso. Apprensiva coi suoi clienti, mi chiamò per dirmi “signorina, ha lasciato dei sandali in camera stamane” e io gli spiegai che non si trattava di sbadataggine ma di sandali vintage, non in quanto pezzi custodi della memoria anni ’70 ma pezzi ormai logori e scomodi che nei giorni precedenti mi avevano assassinato i piedi, meritandosi l’abbandono e la morte. Ho questo vizio: quando un oggetto che mi è appartenuto sta per volgere al termine della sua appartenenza lo porto con me in viaggio, lo coccolo per gli ultimi istanti e lo abbandono dove meno lui stesso se lo potrebbe aspettare. Innumerevoli scarpe abbandonate sotto letti di alberghi, libri stra-letti lasciati su treni ed aerei, magliette ormai consunte dimenticate nello spogliatoio di qualche centro estetico. Ricordo il paio di jeans martoriato da strappi appositi e non solo lasciato al 35° piano del Century Towers a Tokyo: una morte da leone.
Maria Grazia è quella signora dal viso paffuto, dagli occhietti piccoli neri, vispi e curiosi, incastrati in una cascata di capelli neri mossi, lunghissimi, che mi apparve la prima volta dietro i vetri accuratamente addobbati di tende color cipria della porta d’ingresso dell’hotel Estro.
L’hotel Estro è “come casa mia”: “questo è il più bel complimento che un cliente mi possa fare sa?!?” mi disse una mattina dopo avermi chiesto come avevo dormito.
Nel mezzo del Monte Conero, ai piedi di Ancona, finalmente un luogo dove riesco a dormire ed a mangiare senza sforzo. Tutto avviene naturalmente all’interno: la colazione con, finalmente, il croissant integrale al miele con un latte macchiato che ha il sapore del latte, macchiato da un buon caffè, una cucina leggera dalle verdure e pesce fresco, un lettone matrimoniale enorme, duro come piace alla mia schiena e collo, il silenzio in cui poter riposare.
E lei, che quando torno da una giornata di lavoro mi chiede “è stanca? Le offro una spremuta fresca così si rilassa?”, che mi fa un po’ da mamma attenta, sempre dandomi del lei, forse con una live compassione nel vedermi per giorni e giorni sempre sola ma col sorriso sulle labbra perché serena nel poter tornare in un luogo reso da lei stessa molto rasserenante.
Ed io, che sul lavoro mi trasformo in un essere evoluto sciente e molto formale, riesco a tornare me stessa ogni qualvolta arrivo in hotel, attraverso il giardino, e vedo gli uccellini di plastica dai vari colori posizionati in mezzo ai vasi di fiori. Sicuramente messi da Maria Grazia, che ama, mi disse, gli animali. Probabilmente anche quelli di plastica.

Sunday, May 24, 2009

Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose.

“In quel momento fu come se il tempo si fermasse, e l’Anima del Mondo sorgesse con tutta la sua forza davanti al ragazzo. Quando guardò gli occhi di lei, un paio di occhi neri, le labbra indecise fra un sorriso e il silenzio, egli comprese la parte più importante e più saggia del Linguaggio che parlava il mondo e che chiunque, sulla terra, era in grado di capire con il proprio cuore. E si chiamava Amore, una cosa più antica degli uomini e persino del deserto, che tuttavia risorgeva sempre con la stessa forza dovunque due sguardi si incrociassero come si incrociarono quei due davanti ad un pozzo. […]
Ed era lì, il linguaggio puro del mondo, senza alcuna spiegazione, perché l’universo non aveva bisogno di spiegazioni per proseguire il proprio cammino nello spazio senza fine. Tutto ciò che il ragazzo capiva in quel momento era che si trovava di fronte alla donna della sua vita e anche lei, senza alcun bisogno di parole, doveva esserne consapevole. Ne era certa più di quanto lo fosse di ogni altra cosa al mondo, anche se i genitori, e i genitori dei genitori, le avevano sempre detto che, prima di sposarsi, bisognava frequentarsi, fidanzarsi, conoscersi, e avere del denaro. Ma, forse, chi lo affermava non aveva mai conosciuto il linguaggio universale: perché, una volta che vi si penetra, è facile capire come nel mondo esista sempre qualcuno che attende qualcun altro, che si trovi in un deserto o in una grande città. E quando questi due esseri si incontrano tutto il passato e tutto il futuro non hanno più alcuna importanza. Esistono solo quel momento e quella straordinaria certezza che tutte le cose sotto il sole sono state scritte dalla stessa Mano.”

Da “L’Alchimista”, Paulo Coelho

E' una vita che ti aspetto

“Quella sera, dopo una lunga passeggiata metropolitana, siamo andati a mangiare insieme. Questa volta pizzeria. Margherita e birra. Un classico che il mio stomaco conosce e non teme. In un’oretta avevo già digerito. Poi ho accompagnato Ilaria fin sotto casa. Quando è scesa dalla macchina, ho aspettato che fosse entrata nel portone prima di ripartire. Piccole attenzioni per noi uomini, veri e propri modi di confidenze con le amiche per le donne. […]
Anch’io a volte guardo queste cose. Ad esempio, se è una ragazza ad accompagnarmi a casa, quando scendo non mi piace se riparte subito sparata. Mi aspetto che da dentro la macchina mi saluti ancora una volta. Mi piace pensare che non basti chiudere una portiera per far cambiare subito dimensione. Atmosfera. È una cavolata, lo so, ma se parte subito ha già la testa da un’altra parte e…cacchio, voglio dire, aspetta un attimo!
No, perché se ti sei stufata. Allora dillo, piuttosto.
Sono tornato a casa e quella notte ho pensato ai miei genitori. Mi sono venute in mente quelle notti in cui immaginavo la mia esistenza senza di loro. Ormai avevo imparato che davanti alla morte non potevo fare niente, ma davanti alla vita si. Ora avevo coscienza e non paura di morire. Non potevo più preoccuparmi della morte, perché dovevo occuparmi della vita.
Ho pensato che, quando si incontra una persona, quell’incontro crea cose nuove. Dà vita a pensieri, riflessioni, sentimenti, azioni, che appartengono solo alle due persone che si sono incontrate. L’amore che circola tra loro deve essere sempre vissuto tutto, in ogni momento. Fino in fondo. Perché l’amore quando circola, quando viene vissuto è leggero e fa sentire leggeri, ma se viene bloccato, se non lo si vive diventa piombo.”

da “E’ una vita che ti aspetto”, Fabio Volo.

Friday, May 8, 2009

Una testa selvatica

Ho deciso di adottare Margueritte. Tra poco festeggerà l’ottantaseiesimo compleanno, meglio non aspettare troppo. I vecchi hanno la tendenza a morire.
Così, se le succedesse qualcosa, non so, finire a terra per strada, o farsi scippare la borsetta, io ci sarò. Potrò arrivare di corsa e farmi largo tra la gente, dire:
“Ok! Va bene, adesso potete andare! Ci penso io: è mia nonna”.
Non c’è l’ha scritto in faccia che è soltanto adottiva.
Potrò comprarle il giornale, le caramelle alla menta. Sedermi accanto a lei al parco, andare a trovarla ai Pioppi, la domenica. E rimanere a mangiare con lei a mezzogiorno, se voglio.
Certo, avrei potuto farlo anche prima, ma mi sarei sentito in visita. Adesso lo farò per piacere, e anche per dovere. Ecco la novità: gli obblighi familiari. È una cosa che mi piacerà molto, lo sento.

Marie Sabine Roger, “Una testa selvatica”. Una storia piccola e grande che fa accendere la passione per la vita.
Gli obblighi familiari sono un qualcosa che spesso mi piace. Quando si tratta di festeggiamenti puri, come un compleanno, un evento che cambia la vita a qualche pezzo del nostro albero genealogico: un matrimonio, una laurea, un traguardo.
Più di un compleanno. Un traguardo quello della mia Margueritte, che non è stata adottata, ma assunta di fatto come nonna paterna. 80 anni ed ancora preoccupata di gratificarmi ciclicamente con la mia torta preferita ai fiocchi d’avena e cioccolato fondente. Una testa selvatica quella di nonna Maria che ha vissuto e lavorato sempre in aperta campagna. Quell’aperta campagna in cui la mia famiglia vive tuttora ed in cui sono cresciuta misurando la mia natura con la Natura stessa.

Confesso che noi due dobbiamo restare due

Un mio ex fidanzato mi amava per dei perché. Risposte irrazionali, che non avevano nulla a che fare, molto spesso, con la ragione. Deve essere così.
Mi amava perché molto decisa, perché fingevo di avere le idee chiare anche quando non avevo la più pallida idea di quello che stavo facendo. Perché riuscivo ad illudere tutti, perfino me stessa, ma non lui.
Mi amava perché sapevo dirgli in tanti modi la stessa cosa: “stammi su da dosso!!!” e perché lui stesso aveva imparato a dirmi in tanti modi la stessa cosa: “perché sei così dannatamente ingestibile?!?”.
Mi amava perché scoppiavo di entusiasmo per ogni cosa avrei\avremmo potuto e voluto fare.
Mi amava perché odiavo i bambini e perché non ne avrei mai voluti. Anni trascorsi a fantasticare su quante cose avremmo voluto essere, noi due che dovevamo restare due.
Poi una settimana di fine estate, al mare, in Versilia, gli dissi che avevo un ritardo di 2 settimane. Forse noi due non eravamo più due. E lui mi disse, fingendo di essere tranquillo: “stai tranquilla, la casa l’abbiamo e l’entusiasmo verrà.” Mi ha amato anche in quei giorni durante i quali pensavamo di essere in tre.
Allora non mi amava perché odiavo i bambini e non avrei voluto averne.
Mi amava e basta.