Sunday, December 28, 2008

Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima

In terza liceo il professore di storia mi interrogò per prima, proprio ad inizio anno scolastico. Non avendo molto materiale su cui interrogarmi, un misero capitoletto sulle Crociate del XI-XIII sec., si mise a farmi domande di cultura e logica generale pur di potermi dare un voto.

Presi 8, cominciai bene l’anno scolastico e mi stupii di essere riuscita a rispondere alla sua domanda: “Arabo e Musulmano sono sinonimi?”, “No, arabo è chiunque appartenga alle popolazioni, etnie che subirono la dominazione politica, etnica e culturale degli Arabi, assumendone le caratteristiche come la lingua, la religione. Musulmano è colui che è di religione Islamica. Un musulmano non è solamente un arabo e un arabo potrebbe essere di religione non musulmana.”

Pochi anni più tardi feci un viaggio in terre Arabe, visitai moschee, conobbi un ragazzo poco più grande di me che mi fece da Cicerone in luoghi in cui senza le dovute accortezze non sarei potuta entrare. Un foulard in testa per nascondere i miei lineamenti femminili e per rispetto a Dio, il lavaggio di piedi, mani e faccia prima di entrare nella moschea scalza, non sono nulla rispetto a ciò che dovremmo e vorremmo sapere su l’essere musulmano, che non è essere arabo.

In un inglese che non aveva nulla da invidiare al mio, questo giovane musulmano arabo di cui non ricordo il nome ma solo le sembianze poiché più volte compare nelle foto di quel viaggio, mi raccontò cosa significava essere musulmano, donarsi completamente alla volontà di Dio (Allah) mostrandosi devoti attraverso la preghiera, e cosa essere arabo, vivere e far parte di una civiltà da secoli la più potente in quanto a numero di appartenenti ma sempre più debole in quanto a ricchezza.

Ricordo di aver raccontato dell’essere Cristiano e Cattolico, non accennando al nostro nasconderci dietro al “credo ma non pratico” per non dire che potremmo essere beatamente atei o credenti soltanto in caso di bisogno. Non parlai dell’essere europei, occidentali, perché non avevo nulla da dire. Che cosa possiamo dire sull’essere occidentali?

I valori raccontati sull’essere arabo mi avevano stupito a tal punto da non avere nulla di cui vantarmi sull’essere occidentale. Lessi una frase pochi giorni fa in uno scritto, “Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima” e mi venne in mente quel ragazzo musulmano conosciuto nel 2003 ed i suoi racconti di vita quotidiana da arabo nel Medio Oriente. Mi aveva parlato soprattutto dell’amicizia, che per un arabo è un legame quasi sacro, poiché si dona parte della propria anima, ritenuta il bene più prezioso per se stessi, ad altri; mi raccontava di quanto fossero forti e coinvolgenti le loro tradizioni: questa frase, ho pensato, ha qualcosa di Islamico.

Questa frase è stata scritta da Oriana Fallaci, che di Islamico ha solo una cosa: l’avversione, l’odio verso. Eppure, anche lo stesso modo di percepire le cose vissute così viscerali ed in profondità. Mi riconosco. Pochi giorni fa questi miei fluttuanti pensieri mi fecero venire una gran voglia di rivivere questi luoghi e queste persone. Noleggiai i film Cous Cous e Il cacciatore di aquiloni. Cous Cous è un film molto lento, lunghissimo, in cui i dialoghi spontanei dei personaggi intorno ad un tavolo, il pranzo in famiglia della domenica a base di cous cous di pesce, sono la sceneggiatura, nulla di più. In una Istanbul divisa fra Occidente ed Oriente, l’essere arabi viene raccontato attraverso le usanze quotidiane di una famiglia numerosa, allargata (il padre se ne andò tempo fa con un’altra donna, divorziando dalla prima moglie) e piena di conflitti.

Il cacciatore di aquiloni mi ha fatto star male, piangere e disgustare. Ma non posso dar atto all’autore del libro da cui è tratto il film di aver scritto (inventato?) una storia meravigliosa e molto verosimile. In un Afghanistan che non si smentisce in quanto a degrado civile, storico e sociale, la storia di un padre e di un figlio, del proprio servo e del figlioletto a loro servizio, l’amicizia dei due piccoli figli fra dovere, onore ed amore, rispetto per l’altro. La fuga del padre schierato contro il comunismo durante l’invasione dei Russi, l’arrivo in U.S.A. e la crescita e realizzazione del figlio nella cultura occidentale mantenendo le tradizioni ed i valori arabo-musulmani. La fuga negli Stati Uniti d’America: non un caso, forse nemmeno per il film e la sua storia, soprattutto nella realtà dei rifugiati arabo-musulmani che fuggono dalle loro guerre interne.

Poco più avanti della frase citata poco fa, la Fallaci scrive che l’America sembrava il paese più invulnerabile prima che accadesse l’ “Apocalisse” (11 Settembre 2001), ma sottolinea l’impossibilità di un paese libero, non governato da un regime poliziesco, e di una società democratica ed aperta come quella americana di essere invulnerabile, anzi, facilmente esposta ad attacchi interni contro la propria sicurezza.

“La vulnerabilità dell’America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. Nasce dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa 24.000.000 di americani sono arabi-musulmani. E quando Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall’Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce di iscriversi ad un’università per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno.”

E quasi nessuno sa che la maggior parte degli arabi-musulmani NON SONO fondamentalisti, contrari all’evoluzione della società e dei paesi del mondo, soprattutto occidentali, non seguendo le leggi divine di Allah, di un Dio che promette loro quello che tutti gli altri Dio di altre religioni non fanno (quindi, reputati minori).

Ma quasi tutti continuiamo ad avere paura che ci sia un arabo sul nostro volo, soprattutto se internazionale (me compresa), ma non continuiamo ad accorgerci che tutto quello che noi sappiamo della storia e della cultura arabo-musulmana è quello che Lilli Gruber ci dice in tv dall’11 settembre 2001 ad oggi con una nuova pettinatura ed un nuovo rossetto. Soltanto quello che la stampa vuole dirci e soltanto il giusto per farci continuare ad essere gli ignoranti e superficiali occidentali.

Saturday, December 27, 2008

A Natale siamo tutti più buoni

Tranne mia madre, ma questa è un’altra storia… Nemmeno il Natale “ci può”.

Quest’anno durante la cena della vigilia ho mangiato con sottofondo di canzoni di Natale, proprio quelle da compilation. Mentre i primi minuti mi sembravano una curiosa e piacevole novità (era la prima volta che mi calavo nella partecipazione a tale “carineria”), i restanti minuti mi hanno indotto a spegnere il lettore cd e ad accendere la tv sui Simpson.

Il Natale è morto? No, semplicemente, preferisco sempre ridere al morire di noia e finto pathos.

Sono sempre addetta alla preparazione dei dolci, in qualsiasi evento che preveda una cena o anche un minimo buffet. Per la vigilia mi sono esibita in una torta al cioccolato di Regnano, dolce rustico tipico delle colline reggiane, e, per il pranzo di Natale, nel famosissimo “Tiramisù ti prego Allefer” (cioè mi si chiede di tirare su gli umori abbondando di mascarpone e nocciole) e semifreddo alla ricotta e frutti di bosco.

Il responso è stato: “sei una donna da sposare”. Ma nessuno mi si piglia, i dolci non sono tutto nella vita di coppia, forse anche un buon carattere, che non ho, potrebbe favorire il matrimonio.

Ho ricevuto un regalo strepitoso ed inaspettato: un Rabbids, un personaggio che, secondo il donatore, mi assomiglierebbe molto: pacato e paziente nella quotidianità, sclera quando meno te lo aspetti, poiché sopportare è troppo per tutti, anche per il Rabbid, anche per me.


Come dice spesso Michelone, “si fa fatica a capire chi sia il più normale fra te ed i tuoi parenti”. Siamo una famiglia di creativi, di umoristi e di sentimentali. Molto sensibili ai problemi altrui più che ai nostri, abbiamo fatto dell’autoironia e ilarità un punto di forza, visto che di problemi ne abbiamo sempre avuti tanti.


Rimane da accertarmi, però, se mia nonna abbia parlato tutto il tempo con Goro, il cane, per fare la spiritosa o se mio zio abbia versato il vino anche a lei…



Murakami Haruki scrive molto bene

Ho letto non molto tempo fa un libro di cui sono venuta a conoscenza in modo contorto, per caso ma non troppo.

È un libro che trattiene il lettore, di cui non riesci a non sapere ciò che succederà e penserà successivamente il protagonista, quindi, leggerai, leggerai, fin quando non arriverai alla fine.

Non sono capace di farne un commento ed una critica qualsiasi.

Ogni pagina mi ha insegnato e fatto capire qualcosa, di me e del rapporto con gli altri.

Che cosa mi stava raccontando Naoko quel giorno?

Ma si, certo, era la storia del pozzo. […]

- E’ davvero…davvero profondo, sai? – aveva detto Naoko, scegliendo le parole con cura. Era così che a volte parlava: lentamente, cercando le parole adatte. – E’ davvero profondo. Però nessuno sa esattamente dove sia. La sola cosa sicura è che si trova da queste parti.

Poi, le mani ficcate nelle tasche della giacca di tweed, mi guardò con un sorriso convinto.

- Ma allora è pericolosissimo, - dissi io. – Si sa che da qualche parte c’è un pozzo profondo, ma nessuno sa dove si trova. Se uno ci cade dentro, è spacciato.

[…]

- Vengono i brividi solo a pensarci, qualcuno dovrebbe trovare questo posto e fargli attorno un recinto, - dissi io.

- Ma è impossibile trovarlo. È per questo che non devi allontanarti dalla strada principale.

- Ma io non mi allontano.

Naoko tirò fuori falla tasca la mano destra e strinse la mia.

- Comunque tu non corri pericoli. Non c’è niente di cui ti devi preoccupare. Potresti anche camminare da queste parti in una notte buia alla cieca, senza pericolo di cadere nel pozzo. Anch’io se stessi attaccata a te come adesso, non cadrei.

- Sei sicura?

- Sicurissima.

- Come fai a saperlo?

- Lo so. Lo so e basta, - disse Naoko, sempre tenendomi forte la mano. Per un po’ continuammo a camminare in silenzio, quindi riprese: - Questo tipo di cose per me sono molto chiare. Non è un fatto logico, sono solo sensazioni. Per esempio, adesso che cammino attaccata forte a te, non ho nemmeno un po’ di paura. Il buio e il male non possono trascinarmi via.

- Allora, il problema è molto semplice. Basta che stiamo sempre come adesso, - dissi io.

[…]

- Sono così felice di sentirtelo dire. Davvero, - disse lei con un sorriso triste. – Ma questo non è possibile.

- Perché?

[…]

- Perché sarebbe una cosa ingiusta. Sia per te che per me.

- In che senso sarebbe ingiusto?- chiesi con voce calma.

- Perché è impossibile che qualcuno possa sempre proteggere un altro, in eterno.


Murakami Haruki, NORWEGIAN WOOD – TOKYO BLUES

La vita è una questione di culo: o ce l’hai o te lo fanno (speriamo sia depilato)

Non un sabato mattina come tanti altri: sveglia alle 6.45 dopo un venerdì sera all’insegna di cibo ed alcool, colleghi imbevutici da reggere alla cena del proprio ufficio, 4 ore scarse di sonno. Ma era da troppo tempo ormai che io e la Mo ci eravamo promesse resistenza e pazienza, doti indispensabili per prendere e tenere il proprio “posto” dal parrucchiere-guru del capello della Val D’Enza.

Che cosa spinge due giovani donne a svegliarsi all’alba il sabato mattina prima di Natale per prendere il posto dal miglior parrucchiere a cui sono da tempo affezionate?

Due (valide?) motivazioni: il regalo alle clienti durante la settimana di Natale (shampoo gratis) e l’esigenza di avere una testa “a postissimo” e di tendenza proprio nel periodo in cui abbiamo il maggior numero di fruitori di noi stessi, le feste. Complimenti sulla nostra perfetta forma da parenti ed amici che si vedono dopo tanto tempo per gli auguri di Natale sono il migliore regalo per una stimmy[1].

Alle ore 8.00 eravamo sedute all’interno del salone: io e la Mothriller, un lucidalabbra stimmy per me. La decina di persone in attesa come noi ha partecipato all’evento in ansia ad ogni apertura di pacco: credo che abbiano apprezzato molto di più il regalo per me, quello per Monia era fin troppo scontato (in effetti, potevo far di meglio). abbiamo cominciato a tenere vivo l’ambiente scartando i nostri reciproci regali, un libro per lei che legge solo gialli e

Alle 11.00 è arrivato il turno della Mo; dopo mezz’ora il mio. Io ho trovato il coraggio di tagliarmi i capelli, un carrè alle spalle con ciuffetto sbarazzino. La Mo ha trovato il coraggio di cambiare colore, uno splendido castano, e taglio. La sua espressione con sorrisetto compiaciuto del suo aspetto mentre si guardava allo specchio è stato il suo vero regalo di Natale: così soddisfatta di ciò che vedeva di sè non lo era mai stata.

Avevo deciso che mercoledì mattina avrei ricevuto il mio regalo di Natale da me stessa: un massaggio indiano al Comfort Zone Spa di Monticelli Terme. 80,00 euro veloci veloci come una passata di carta di credito: 1 ora e 15 minuti di massaggio ovunque con olio caldo, riflessologia plantare, tisana in ambiente cromo-aroma terapeutico. Quante parole servono per convincere, soprattutto una donna, che 80,00 euro non sono poi così tanti per 2 ore “fuori dalle palle” e con qualcuno che ci tocchi senza scòpo di “scopo”? Nel mio caso, ero già convinta dopo le due parole MASSAGGIO OVUNQUE.

Da Estetica L’Angolo di Montecchio Emilia fanno la migliore ceretta in Emilia. Mai come oggi il pelo è diventato un reato, soprattutto quello femminile e pubico. Le mie confidenti estetiste mi lusingano assai ogni volta che faccio la ceretta all’inguine strappando il più possibile, perché non emetto suoni, gridolini e non mi lamento del dolore. Di questo passo, non dovrei nemmeno gridare ed emettere infamanti parole contro “mio marito” nel momento del parto, poiché, dicono, il dolore di una ceretta pubica totale è quasi equiparabile al dolore del parto. E se me lo dice un’estetista mamma che ha provato entrambi dovrei crederci.



[1] Dicesi “stimmy”, Donna “stimolosa” che fa del suo look vincente e sempre appropriato la sua arma vincente contro il grigiore della quotidianità e contro la durezza della vita.



Thursday, December 18, 2008

Il "cambiare idea"

Non mi ricordo quale fosse la fonte, ma la frase “solo i cretini non cambiano idea” mi ha sempre trovato concorde. Cambiare idea è sinonimo di continue ri-valutazioni e nuovi (molteplici?) punti di vista. Ho stima delle persone che sanno cambiare idea perché capaci di mettersi in gioco anche su piccoli e banali argomenti.

In questi giorni io stessa ho cambiato idea sulla città di Milano, anzi, sulla vivibilità e bellezza della città di Milano. Ma per questo non mi auto-stimo. Sono, però, orgogliosa dell’aver saputo aspettare il momento giusto per poterla apprezzare e vivere in tutti i suoi pro (non soffermandomi ed innervosendomi solo sui contro).

Anche le ripetute ed invivibili occasioni che nel passato mi avevano portato a Milano, soprattutto per studio e lavoro, avevano aggravato il mio pregiudizio di città grigia, asettica e troppo veloce. Stasera torno da giorni in trasferta a Milano, la prima, per il mio nuovo incarico quasi rilassata, non in piena crisi di nervi e isterismo come i ritorni di Alessandra durante la sua vita\azienda precedente.

Devo, anche e soprattutto, considerare l’importanza delle persone con cui lavoro ora e del clima che si respira in un’azienda in cui tutto “fila”, in cui “ognuno riga dritto”.
Finalmente ho potuto dormire in una camera tutta mia, in trasferta con più donne. 3 donne, 3 camere matrimoniali uso singolo. Ben venga il rispetto della propria privacy e del contatto di lavoro e non forzature personali fra colleghi. Finalmente un hotel molto confortevole, in ottima posizione rispetto al luogo di lavoro.

La sua posizione in pieno centro mi ha permesso di vivere il centro storico dall’alba al tramonto e favorire “il mio cambio d’idea”. L’omaggiarmi del quotidiano milanese “E Polis Milano” al mattino, prima di colazione, la ciliegina sulla torta: perfino i quotidiani minori sono curati nei minimi dettagli.

Buttarmi in Piazza Duomo alle 9.30 del mattino non mi ha più sconvolto: l’enorme albero di Natale davanti all’ingresso della Galleria Vittorio Emanuele II, le centinaia di piccioni, le migliaia di persone in movimento mi hanno, sorprendentemente, rasserenato. Mi è piaciuto essere parte del tutto ed in movimento con questo; una piccolissima parte di quella città che ho sempre odiato per la sua confusione disordinata e di cui in queste mattine volevo e godevo nel farne parte. Lavorare in Corso Vittorio Emanuele II è un’esperienza da provare, soprattutto se si lavora all’interno di un edificio con pareti di vetro: il continuo flusso di persone sotto ai miei occhi mi dava la sensazione di essere al luna park. E mi divertivo.

“Al panino giusto”, laterale di Piazza Beccaria, servono il caffè, uno dei più buoni mai assaggiati, con il BOCCONCINO DAI-DAI, una pralina di cioccolato fondente con crema gelato all’interno, da mangiare subito dopo il caffè bollente. Di fronte a questo bar, “La Bruschetta” serve il giusto brasato con polenta e funghi per farvi passare una buona serata di gusto. Si suona il campanello alla porta della trattoria: il proprietario, toscanaccio trapiantato a Milano, vi verrà ad aprire ed accogliere, non tanto di buon umore però.

In via Cantù, “Peck – Italian Bar” mi ha fatto sentire “una signora di classe”: saranno state le dame milanesi di terza età tutte agghindate in Chanel ed ori sedute al tavolo di fianco! Come dice una mia collega prima di entrare in un locale “qui si mangia bene” e come ripete tutte le volte che mette in bocca un boccone “qui si mangia proprio bene”, sì, qui si mangia bene. Da prendere, il gelato artigianale al pistacchio ed il risotto alla zucca e pinoli. Vivere Milano fra le viuzze del centro, i suoi locali, i suoi negozi “che sono solo qui” con roba “che trovi solo lì”, vivere tutto questo sotto le diverse luci del giorno mi ha fatto sentire quasi a casa, in una città che “di casa” non mi ha mai dato nulla. Sarò contenta di tornare a Milano d’ora in poi.

Thursday, November 27, 2008

Patricia van Lubeck

Salvador Dalì
Fernando Botero
Patricia van Lubeck
Anche gli insegnanti apportano qualcosa di determinante nella propria vita. Durante gli anni di liceo, la mia insegnante di "storia dell'arte" divenne un pò un punto di riferimento: il riferimento che l'arte mi piaceva, mi sarebbe sempre piaciuta. Trascorrevo i sabati pomeriggio davanti alla tv, ma quello era solo il sottofondo, l'accompagnamento. Di norma sbirciavo un film in bianco e nero con Alberto Sordi o quant'altro: l'importante che fosse un film in bianco e nero e non più giovane dei 30 anni. Disegnavo capitelli, riproducevo templi greci e romani: tutto con una precisione maniacale. Dopo alcuni anni, dal disegno pratico passavo allo studio personale di ciò che cominciava ad attrarmi: l'arte moderna e contemporanea. Prendevo in prestito volumi enormi dalla biblioteca comunale, li trasportavo a casa come un mulo da soma, mi appostavo sul divano e sfogliavo fino a tarda serata del sabato, quando non sarei uscita perchè tanto mio padre non mi avrebbe mai dato il permesso.
Fervida appassionata tutt'oggi di arte, ricevo suggerimenti da amici appassionati quanto me e non su cosa c'è di nuovo ed interessante sul mercato degli artisti con plus valore. All'arrivo di un'e-mail con tanto di link al sito di Patricia van Lubeck ed una sola frase: "questa ti piacerà" sono corsa all'eplorazione del sito web. Mi è piaciuta sì, la sua arte e la sua voglia di presentarsi in modo semplice (foto a lato). I cetrioli giganti non hanno segreti per le donne, ho sempre pensato.
Patricia ha un suo modo di interpretare e dipingere la natura che la circonda. Mi emozionano i colori e le forme, quindi raggiunge già il primario obiettivo di ogni artista: suscitare qualcosa a livello emotivo.
A ricchezza media raggiunta mi piacerebbe comprare un suo quadro, originale, ho pensato.
Ma poi la sua arte mi ha emozionato fin troppo, a tal punto da arrivare a provare la stessa sensazione che mi suscita Dalì e Botero. Ora sono combattuta, Patricia non mi sembra più così originale e fresca. Però, devo ammettere che anche copiare con stile e non essere colta in flagrante dai più è un arte.

Tuesday, November 25, 2008

Feel better


Durante una delle mie sedute di auto-analisi, detta “alieno-psicoterapia anti-arterio”, mi sono chiesta: quali sono le cose che facciamo, le persone che scegliamo, che ci fanno stare meglio, davvero bene? In base a cosa scegliamo questi elisir di buonumore?
In questa nuova era in cui siamo visti come tante piccole api di uno sciame, fluido (Z. Bauman), che svolazzano verso stesse mete indotte dai media ma non veramente volute e conosciute, che cosa ci rende api felici, capaci di prendere il volo in direzioni diverse da quelle del proprio sciame, anche se per pochi attimi, per raggiungere una nostra consapevole meta?
Qualsiasi sia la natura di ciò che ci regala serenità e buonumore, questo dovrà essere TOTALIZZANTE. Sì, dovrà azzerare qualsiasi altra forma di pensiero, ragionamento, sensazione e sentimento negativo, paranoico ed ossessivo ansioso. Noi e la cosa che stiamo facendo. Noi e la persona con cui la stiamo vivendo. Noi e la persona che vogliamo vivere.
Noi. Noi stessi, senza l’indecisione che ci assale su quale maschera indossare prima di entrare in scena. Noi stessi, senza l’ansia da prestazione mentre siamo in pieno atto e ci sforziamo di ricordare “la parte” e di sembrare più sciolti possibile nella sua interpretazione: più si è sciolti più sembriamo bravi, proprio in quel ruolo. Noi stessi, senza la paranoica ossessione di ripensare alle sbavature commesse durante la recita giornaliera, dopo.
Mi ha sempre turbato e fatto riflettere questo senso di “omologazione” che innesca “il teatrino” di ognuno di noi, ogni giorno. Ognuno di noi è convinto di “non poter essere accettato da chiunque per quello che si è realmente” e di doversi modellare a seconda delle persone con cui vogliamo\dobbiamo avere un rapporto ed a seconda di ciò che si vuole da questo rapporto. Perché siamo così ossessionati dal dover piacere a chiunque? Siamo tutti, nel nostro piccolo, degli attori provetti, alcuni con un innato senso dell’humour, i cosiddetti “giullari di corte”?
Man mano che i mesi passano (l’anno per me è un tempo troppo lungo, subisco trasformazioni\evoluzioni anche nell’arco di una sola giornata, figuriamoci in un mese!), matura dentro di me la conoscenza dei miei punti deboli e delle migliori armi per difenderli. Questo è invecchiare, Signori e Signore, e passare sempre più tempo con se stessi. Ci tocca conoscere noi stessi sempre più a poco a poco.
La prima cosa che conobbi di me stessa fu: libera sempre. I troppi anni di tolleranza finta e forzata hanno prodotto in me una sostanza stupefacente per me ma tossica per i miei “amanti”: pensiero-azione-pensiero-azione. Fin da adolescente capii che per stare bene dovevo mettere in pratica i miei lampi creativi ed affettivi: i miei gesti che sembrano “eclatanti” non sono altro che i miei momenti di azione preceduti da una irrefrenabile voglia-pensiero di alcune cose, situazioni, persone. I gesti eclatanti mi fanno “stare bene”. Farli (se geniali nella loro spontaneità ed amore, qualsiasi sia il tipo d’amore, anche riceverli).
Il latte macchiato, un gelato alla nocciola artigianale fatto come si deve, un buon toast, cucinare per qualcuno (per me soltanto, spesso, sono pur sempre qualcuno!), Velvet o un buon libro davanti al camino d’inverno, flashata dalla lucine che si “accendono e si spengono” dell’albero di Natale gigantesco (che faccio con cura in anticipo, metà Novembre, e disfo in largo ritardo, metà Febbraio) sono le piccole cose che mi fanno sorridere “del niente”.
La compagnia delle persone che ho avuto la fortuna di conoscere e di “trattenere” perché volevo facessero parte dei miei momenti è un’altra “pillola” per il mio buonumore. I miei cari sono quasi tutti persone TOTALIZZANTI: in loro compagnia non sento la necessità di avere attorno altre persone e di essere in altre circostanze, situazioni.
Da dottoressa, prescrivo, contro l’incupirsi delle proprie idee, voglie ed iniziative, una buona dose di cose\persone TOTALIZZANTI, da prendere fin dal mattino, al risveglio. Non c’è cosa migliore dello svegliarsi e poter GIA’ essere se stessi.

Wednesday, November 19, 2008

L'invasione dei giovani tronisti

Da qualche giorno mi alzo al mattino con un pensiero fisso e poco piacevole: che cosa far fare ed insegnare a Katia del Grande Fratello.

“Ho dato il là” mesi fa (forse non sono stata molto cortese ed educata) alla creazione di soprannomi ai colleghi più strani e “meno dotati” (cerebralmente e umanamente). Il nostro terzo piano è popolato da principi persiani “Babà”, orchi bassottelli con bulbi oculari protesi un po’ troppo in avanti e da pochi giorni da una giovane aspirante velina dai capelli “alla Katia GF”.

Katia GF è alquanto sveglia. Ha voglia di fare. Però ha anche tanta voglia di farsi fare.

Da chi ancora non lo so, vorrei indagare, ma al momento non ho né voglia né energie (leggere come “tempo da perdere”).

La sua scrivania è ora di fianco alla mia. Lei mi osserva, del resto sta imparando “il mio ruolo”. Mi sembra, quindi, giusto parlarle di me, almeno delle cose più basilari che un buon essere pensante dovrebbe conoscere di me e di ciò che di buono, poco, ho da poter offrire.

Le ho fatto cenno della mia passione spudorata per Sex & the City: “oh, in quel telefilm fanno cose strane”. Le ho mostrato i cuccioli cercamici zoo3 appena usciti in edicola, ancora più morbidi e pelosi: “ma tu hai passioni strane!”. Le ho offerto un’arancia: “oh, no, io mangio solo mele”. Le ho parlato di viaggi fatti e da voler fare: “quest’estate sono stata a Marina di Ravenna però in Duna c’era meno gente del solito”.

Poi mi ha chiesto dove fosse Benevento. E non ha riso alla mia battuta su “L’Aquila città” scritta con la CQ.

Mi arrendo: non si riesce ad insegnare niente a queste generazioni di tronisti. Nemmeno a stare umilmente su un trono (cioè, scomoda sedia da ufficio, per di più senza rotelle).

La disgrazia imminente

C’è un motivo “tecnologico ed elettronico” per cui il Blackberry non dorme mai. Ci illudiamo di spegnerlo poco prima di addormentarci, durante i momenti in cui non possiamo (dovremmo) essere disturbati. Invece, lui è con noi, non dorme. Cerca, invano, di essere amico fedele, di non abbandonarci, ma quando meno te lo aspetti “sviene”.
E sviene nel bel mezzo di una comunicazione, mentre parli con tono stanco e qualsiasi, dall’auricolare, tornando dal lavoro, guidando a discreta velocità in autostrada. E proprio quando pensi che sia caduta la linea e di non aver la forza (voglia) di richiamare, godendoti gli ultimi chilometri che ti separano da casa in completo silenzio, il tuo piccolo mondo di affetti comincia a muoversi, quasi “ribollendo”.
L’amico Blackberry è un duro. Non sviene come noi comuni mortali: ci afflosciamo a terra, come pere mature cadute da un albero, completamente senza cenni di vita per qualche secondo. Lui continua a muoversi: riceve ed invia messaggi, e-mail, ma non ha rete per fare e ricevere chiamate.
A linea apparentemente caduta, mi provano a richiamare. Rete non disponibile. L’essere umano è di indole pessimista ed un po’ “porta-sfiga”: “era in autostrada, stanca, non riesco più a prendere la linea, la comunicazione si è interrotta improvvisamente”, UGUALE, “ha fatto un incidente”.
Partono le catene di telefonate, ricerche ed interrogativi sulle mie precise ed eventuali posizioni satellitari.
Nel frattempo io continuo a godermi il silenzio nei miei ultimi chilometri di viaggio.
Arrivo a casa, pioviggina. Metto la macchina in garage, salgo lentamente le scale, apro la porta di casa, saluto i miei cani che mi aspettano con ansia perché affamati, mi tolgo abiti ormai troppo “impegnativi” da tenere ancora addosso, faccio una lunga minzione e mi dirigo in cucina.
Stasera un qualcosina di leggero, penso. Dispongo sul tavolo le vittime della mia subitanea carneficina, quando sento in lontananza un rimbombare di passi veloci e pesanti ed una voce tuonare: “Siamo tutti in pensiero!”.
“Meno male, pensare è una buona cosa, figuriamoci esserci dentro (IN) ed in compagnia (SIAMO)” dico io.

Friday, November 14, 2008

E' il momento


Nella vita certi eventi capitano così di rado, che quando capitano meritano una particolare attenzione: come per la cometa di Halley, le eclissi solari, le occasioni irripetibili.

In una piovosa serata infrasettimanale, sola in penombra ad inebriarmi di un ottimo incenso acquistato in Giappone pochi mesi fa, il respiro affannoso del cane sul tappeto, le prime parole dell’ennesimo episodio di Sex & the City che rimbombano nella mia testa per un momento tanto lungo quanto l’innescarsi della mia reazione emotiva.

Quali sono state le occasioni irripetibili nella mia vita? Quali ho colto?

Forse tante, perché ho sempre deciso di fare tante cose.

Ma non di tutte queste posso parlarne con vera emozione (probabilmente perché di emozione non ne hanno scaturita un granché in me).

Però di una un’emozione irripetibile provocata da un’occasione irripetibile potrei parlare.

Quando si modifica qualcosa dentro ognuno di noi, si modifica anche il nostro potenziale “vivere futuro”. Si percepisce il nostro cambiamento quasi sempre dopo che è avvenuto, o comunque cominciato da tempo, perché il confronto con “il noi di prima” dimostra a noi stessi un cambiamento che non può non essere percepito “perfino” da noi stessi.

E’ probabile che il proprio cambiamento venga percepito prima da chi ci osserva da fuori. Noi siamo troppo impegnati a stare male, a sentirci strani, a non “avere voglia delle cose che facevamo prima” (o che accettavamo).

Una mattina nuvolosa e calda, in un tempio scintoista di Kyoto, quest’estate, ho conficcato alcuni incensi accesi tenuti insieme da una fascetta di carta viola nella cenere, quella cenere che un tempo erano altri incensi bruciati a loro volta e conficcati nella stessa cenere. Quando i credenti nel scintoismo pregano o cercano un contatto con le loro spiritualità accendono incensi. Mi ricordo di aver fissato per qualche secondo le punte dei bastoncini ardere velocemente, poi pian piano rallentare il loro corso. Lessi questo come un cattivo segno. So cosa dissi tra me quando guardai gli incensi in quei pochi secondi. Chiesi un’occasione irripetibile.

Non so quanta forza mi ci sia voluta per cercare un forte cambiamento. Forse non tanta quanta invece mi è stata necessaria per accettare un’occasione irripetibile. Del resto voluta. Capitata nel momento stesso in cui sarei stata in grado di coglierla.

Ecco, so che non è il “cambiare lavoro”. So che non è “il dover ricominciare ad ingranare in un altro ambiente”.

E’ e sarà il prendere quello che mi spetta, perché io l’ho aspettato tanto. E’ il ri-vedermi adolescente, studentessa universitaria fantasticante su come sarebbe stato bello “lavorare lì dentro”.

Ho patito nell’attesa come non mai. Sintomo dell’importanza che aveva (avrebbe potuto avere) anche un piccolo gesto di attenzione nei miei confronti. Un’azienda che mi ha scaturito (scaturisce) emozioni simili ad un Uomo. Speriamo sia quella giusta, un po’ come l’Uomo.

Che poi non ho ancora capito quando un qualcosa “fa per noi”, “è giusta per noi”.

Forse, semplicemente, ci piace.