La sua premura nell’aiutarmi a mettere i piedi dove c’era spazio sul pavimento all’ingresso, al buio, mi fecero sperare di non vedere nessun tipo di luce.
Mentre lui cercava una qualsiasi forma di illuminazione, io cercavo velocemente con gli occhi un punto in cui poter essere toccata per la prima volta, un punto ad alto tasso di perversione e prima che potesse riuscire ad accendere la luce. Le finestre dalle imposte aperte, la luce esterna, l’illuminazione della notte, mi fecero puntare una parete nuda.
Non era necessario parlare, come non lo era stato bere qualcosa poco prima. Io avevo bisogno di quello, ma non ero l’unica.
L’avventarsi uno sull’altro, contro quella parete d’occhiata pochi secondi prima aveva un qualcosa di “documentario sulla savana”, dove si vedono leoni in branco avventarsi su carcasse fresche di cattura.
Contro quel muro ho provato ogni cosa percepibile in quel momento e quella sera: la libertà di lasciarsi andare per voler “semplicemente” provar piacere e far provare piacere, la scomodità eccitante della resistenza pur di farlo bene e così, la necessità di essere me stessa ansimando e dicendo ciò che inconsciamente la propria anima fa dire in quei frangenti.
Quel poco che vidi quella sera, in quelle stanze, senza luce artificiale e quello che vidi fuori di lui e dentro mentre gemeva appoggiato a me, mi resero serena a tal punto da non avere timore di mostrarmi nuda veramente dopo, sedendomi a parlare di me fino a notte fonda.
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