Presi 8, cominciai bene l’anno scolastico e mi stupii di essere riuscita a rispondere alla sua domanda: “Arabo e Musulmano sono sinonimi?”, “No, arabo è chiunque appartenga alle popolazioni, etnie che subirono la dominazione politica, etnica e culturale degli Arabi, assumendone le caratteristiche come la lingua, la religione. Musulmano è colui che è di religione Islamica. Un musulmano non è solamente un arabo e un arabo potrebbe essere di religione non musulmana.”
Pochi anni più tardi feci un viaggio in terre Arabe, visitai moschee, conobbi un ragazzo poco più grande di me che mi fece da Cicerone in luoghi in cui senza le dovute accortezze non sarei potuta entrare. Un foulard in testa per nascondere i miei lineamenti femminili e per rispetto a Dio, il lavaggio di piedi, mani e faccia prima di entrare nella moschea scalza, non sono nulla rispetto a ciò che dovremmo e vorremmo sapere su l’essere musulmano, che non è essere arabo.
In un inglese che non aveva nulla da invidiare al mio, questo giovane musulmano arabo di cui non ricordo il nome ma solo le sembianze poiché più volte compare nelle foto di quel viaggio, mi raccontò cosa significava essere musulmano, donarsi completamente alla volontà di Dio (Allah) mostrandosi devoti attraverso la preghiera, e cosa essere arabo, vivere e far parte di una civiltà da secoli la più potente in quanto a numero di appartenenti ma sempre più debole in quanto a ricchezza.
Ricordo di aver raccontato dell’essere Cristiano e Cattolico, non accennando al nostro nasconderci dietro al “credo ma non pratico” per non dire che potremmo essere beatamente atei o credenti soltanto in caso di bisogno. Non parlai dell’essere europei, occidentali, perché non avevo nulla da dire. Che cosa possiamo dire sull’essere occidentali?
I valori raccontati sull’essere arabo mi avevano stupito a tal punto da non avere nulla di cui vantarmi sull’essere occidentale. Lessi una frase pochi giorni fa in uno scritto, “Su ogni esperienza lascio brandelli d’anima” e mi venne in mente quel ragazzo musulmano conosciuto nel 2003 ed i suoi racconti di vita quotidiana da arabo nel Medio Oriente. Mi aveva parlato soprattutto dell’amicizia, che per un arabo è un legame quasi sacro, poiché si dona parte della propria anima, ritenuta il bene più prezioso per se stessi, ad altri; mi raccontava di quanto fossero forti e coinvolgenti le loro tradizioni: questa frase, ho pensato, ha qualcosa di Islamico.
Questa frase è stata scritta da Oriana Fallaci, che di Islamico ha solo una cosa: l’avversione, l’odio verso. Eppure, anche lo stesso modo di percepire le cose vissute così viscerali ed in profondità. Mi riconosco. Pochi giorni fa questi miei fluttuanti pensieri mi fecero venire una gran voglia di rivivere questi luoghi e queste persone. Noleggiai i film Cous Cous e Il cacciatore di aquiloni. Cous Cous è un film molto lento, lunghissimo, in cui i dialoghi spontanei dei personaggi intorno ad un tavolo, il pranzo in famiglia della domenica a base di cous cous di pesce, sono la sceneggiatura, nulla di più. In una Istanbul divisa fra Occidente ed Oriente, l’essere arabi viene raccontato attraverso le usanze quotidiane di una famiglia numerosa, allargata (il padre se ne andò tempo fa con un’altra donna, divorziando dalla prima moglie) e piena di conflitti.
Il cacciatore di aquiloni mi ha fatto star male, piangere e disgustare. Ma non posso dar atto all’autore del libro da cui è tratto il film di aver scritto (inventato?) una storia meravigliosa e molto verosimile. In un Afghanistan che non si smentisce in quanto a degrado civile, storico e sociale, la storia di un padre e di un figlio, del proprio servo e del figlioletto a loro servizio, l’amicizia dei due piccoli figli fra dovere, onore ed amore, rispetto per l’altro. La fuga del padre schierato contro il comunismo durante l’invasione dei Russi, l’arrivo in U.S.A. e la crescita e realizzazione del figlio nella cultura occidentale mantenendo le tradizioni ed i valori arabo-musulmani. La fuga negli Stati Uniti d’America: non un caso, forse nemmeno per il film e la sua storia, soprattutto nella realtà dei rifugiati arabo-musulmani che fuggono dalle loro guerre interne.
Poco più avanti della frase citata poco fa, la Fallaci scrive che l’America sembrava il paese più invulnerabile prima che accadesse l’ “Apocalisse” (11 Settembre 2001), ma sottolinea l’impossibilità di un paese libero, non governato da un regime poliziesco, e di una società democratica ed aperta come quella americana di essere invulnerabile, anzi, facilmente esposta ad attacchi interni contro la propria sicurezza.
“La vulnerabilità dell’America nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza, dalla sua potenza, dalla sua modernità. Nasce dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità, dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti. Esempio: circa 24.000.000 di americani sono arabi-musulmani. E quando Mustafà o un Muhammed viene diciamo dall’Afghanistan per visitare lo zio, nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli proibisce di iscriversi ad un’università per studiare chimica e biologia: le due scienze necessarie a scatenare una guerra batteriologica. Nessuno.”
E quasi nessuno sa che la maggior parte degli arabi-musulmani NON SONO fondamentalisti, contrari all’evoluzione della società e dei paesi del mondo, soprattutto occidentali, non seguendo le leggi divine di Allah, di un Dio che promette loro quello che tutti gli altri Dio di altre religioni non fanno (quindi, reputati minori).
Ma quasi tutti continuiamo ad avere paura che ci sia un arabo sul nostro volo, soprattutto se internazionale (me compresa), ma non continuiamo ad accorgerci che tutto quello che noi sappiamo della storia e della cultura arabo-musulmana è quello che Lilli Gruber ci dice in tv dall’11 settembre 2001 ad oggi con una nuova pettinatura ed un nuovo rossetto. Soltanto quello che la stampa vuole dirci e soltanto il giusto per farci continuare ad essere gli ignoranti e superficiali occidentali.