Mi incammino sulla mia utilitaria da sola (mi piace molto, in realtà “sola”) con in sottofondo il cd masterizzato, che salta causa usura, delle hits dance più “da intenditore”. Quando andavo al liceo facevo dei “viaggi” (mentali, non chimici e “stupefacenti”) molto dettagliati quanto fantasiosi sulle canzoncine dance. Ballavo chiusa in bagno con la musica a palla, facendo finta di ballare sul cubo di una famosa discoteca in voga, immaginavo i ragazzi in delirio nel vedermi in tutto il mio splendore. Beh, a quei tempi studiavo molto, quindi da qualche parte l’idiozia dovevo pur sfogarla.
Arrivo al mio ristorante preferito, parcheggio, cerco di attraversare la strada da sola (ho un problema di coordinamento carreggiate di senso opposto quando devo attraversare la strada, poi mi viene l’ansia, rallento tutto d’un colpo, accelero, insomma…normalmente chi è con me mi da la mano per attraversare la strada) ed entro. La cameriera arguta mi vede da sola senza colleghi, io esordisco “sono sola oggi”, mi fa sedere. Ordino porzioni doppie di yaki gyoza, california maki e tè verde.
Fortunatamente, nessuno è voluto venire con me a pranzo. La tranquillità mi ha pervaso in ogni dove. Purtroppo però, devo ammettere che soltanto i ristoranti giapponesi mi permettono questo agio nell’essere da sola durante il pasto. Qualsiasi altro ristorante con cucina differente, anche emiliana, di casa mia, mi fa sentire “donna sola e asettica”. Mi è venuto in mente di cercare, se esiste, una guida “alla Michelin” di tutti i ristoranti giapponesi in Italia. La mia serenità durante qualsiasi viaggio di lavoro e di piacere sarebbe assicurata.
Seduti ai tavoli dei ristoranti giapponesi c’è spesso gente sola. Io sola controllo la posta elettronica sul blackberry brandendo la mia agenda (leggi, “farsi etichettare come donna con un certo potere professionale”, anche se io non ho nessun potere ma solo capacità, tra l’altro non viste e valorizzate, ma la frustrazione sarà un racconto a parte), una giovane donna seduta accanto a me legge alcuni appunti e ne prende altrettanti (leggi, “non ho tempo da perdere nell’alzare il “muso” dal piatto, devo creare, controllare, ho le sorti del mondo sulle spalle), un uomo altrettanto giovane siede davanti a noi e ci fissa. Ma non era l’uomo la colonna portante dell’economia mondiale? Non dovrebbe essere l’uomo a controllare e-mail anche durante il pranzo ed a scrivere idee? Capisco Michelone quando mi dice “farò io il mammo, tu avrai tutto il tempo per fare carriera”. Forse dovrei credergli.
Durante il pomeriggio, dopo che il mio capo mi aveva detto di fare una cosa urgentissima ponendola davanti a tutte le altre che avrei dovuto fare, avendo fatto questa cosa ed avendogliela portata di corsa ed avendo ricevuto in risposta “ah Alle, ora non mi serve più. Ho risolto in un altro modo. (4 secondi in cui io divento verde ed abbozzo un sorriso ironico che suggerisce l’idea “crepa, stronzo”). Comunque grazie”, mi chiama
Lo so, detto da un viso dai lineamenti delicati come il mio, tale vocabolo può risultare poco appropriato, ma rendeva bene l’idea.
“Usciamo…ti prego”. “Vampyria, anzi no, Filo, andiamo al cinema”. “Eh, ma cosa andiamo a vedere?” “Aspetta che apro Trovacinema e guardo. C’è Albakiara.” “Ah, quello su Vasco”.
Non sapevamo cosa stavamo facendo. Non solo il film non ha nulla a che vedere con Vasco Rossi se non le canzoni della colonna sonora ed un interprete, non si può chiamare attore un cane pure sfigurato come quello, che è suo figlio. Ma Stefano Salvati, il regista, andrebbe messo in manicomio. Toglietelo dalla circolazione, non fategli toccare una macchina da ripresa, non fategli creare, anche solo pensare ad altri film. E’ un pericolo per tutti noi, potenziali fruitori delle sue “cagate”. Idea buona quella di creare un film sulla nuova generazione da lui definita K (perché K? Non era X? Ah, ora è K perché i giovani scrivono K al posto del CH negli sms?), fatta di giovani drogati, sesso dipendenti, amorali, sempre in cerca di soldi (beh, questo anche io che appartengo alla generazione PFCS, Pezzenti Fieri Col Sorriso). Questo dovrebbe, potrebbe, anzi, far riflettere su un lento degenero di ciò che di puro rimaneva (i giovani) ed invece rimane (solo i bambini). Ammetto di essere rimasta allucinata da una realtà di cui si sente parlare ma non tocco più con mano (non ho nipoti, cugini, amici adolescenti), ma di cui non ho dubbi sia così oggi.
In ugual misura alllucinata da un montaggio ed una sceneggiatura che non hanno niente a che vedere con qualcosa chiamato “film”, da dialoghi ed interpretazioni al limite della candid camera in sala per vedere come reagivano gli spettatori. La protagonista Laura Gigante è “una pietà”, sicuramente non bella come quella di Michelangelo. “E’ la mia prima esperienza, mi sono calata completamente nella parte, nel personaggio che dopo le riprese ho avuto difficoltà ad abbandonare”. Eh, cheddire, non so cosa ne sarebbe uscito se non si fosse calata nemmeno nel personaggio.
Il film inizia con un racconto di Albakiara: “vuoi che ti racconti una mia serata gangster? Allora, mi era venuta una gran voglia di fumare, ma sai dove? Nella vasca da bagno. C’ero io, il Gappo e Stuca. Ad un certo punto ho sentito qualcosa di duro dietro la schiena. Eh va beh dai, è normale, completamente nudi. Poi mi sono alzata, ho cominciato a toccarmi, il Gappo mi ha messo a novanta…il Stuca me lo ha ficcato…io ero strafatta.” Primi 4 minuti del film. Esilaranti. Ma il meglio sarà la fine, quando lei muore con un proiettile in testa ed il suo assassino le grida: “è finito il tempo delle mele, puttana”.
Ecco, l’ultima frase vale gli 8 euro del biglietto. Ed io e